Dal catalogo che accompagna l’esposizione “GUTAI Dipingere con il tempo e lo spazio”

 GUTAI Dipingere con il tempo e lo spazio

Marco Franciolli 

 “L’arte Gutai non trasforma la materia. L’arte Gutai dà vita alla materia.”

Jiro Yoshihara, Manifesto Gutai, 1956 

Le ricerche artistiche più pregnanti nel secondo dopoguerra, sino alla fine degli anni sessanta, posero al centro della loro dimensione estetica alcuni dei concetti fondanti dell’arte occidentale: forma, materia, vuoto, tempo, spazio, finanche lo stesso atto creativo furono rimessi in discussione alla ricerca di nuove vie per l’arte e di soluzioni linguistiche inedite per esprimere la realtà contemporanea. Un apporto sostanziale alle sperimentazioni più radicali di quegli anni – come già avvenne a partire da metà Ottocento con le stampe giapponesi e il diffondersi del japonisme – fu quello fornito da un’avanguardia artistica giapponese: il gruppo Gutai, un movimento incentrato su presupposti culturali, filosofici e formali talmente altri da scardinare i paradigmi della creatività e dell’opera d’arte. Utilizzando liberamente i più inaspettati strumenti e mezzi espressivi, gli artisti Gutai seppero fornire un apporto autenticamente originale alla rimessa in discussione dell’atto creativo non solo in Giappone, affermandosi quale avanguardia artistica protagonista sulla scena internazionale.

Questa mostra, la prima monografica dedicata al gruppo Gutai presentata in un museo svizzero, è la prosecuzione logica nella linea espositiva del Museo Cantonale d’Arte, volta ad approfondire tematiche fondamentali dell’arte del Novecento. Dopo aver affrontato il tema dell’abbandono del concetto di forma nella mostra “Da Kandinsky a Pollock. La vertigine della non-forma” e successivamente il concetto di vuoto in “L’immagine del vuoto. Una linea di ricerca nell’arte in Italia 1958-2006”, con la mostra su Gutai si offre l’opportunità di avvicinare un’avanguardia artistica che ha eletto a proprio manifesto tali questioni. “All’epoca pensavamo, e ne siamo tuttora convinti, che la più grande eredità dell’astrattismo consistesse nel superamento dell’arte figurativa per aprire la strada alla possibilità di creare un nuovo spazio indipendente, autenticamente creativo. Abbiamo deciso che avremmo esplorato con forza le potenzialità della creazione artistica pura. Per tradurre in termini concreti uno spazio astratto è sembrato necessario coniugare le doti personali dell’artista con le caratteristiche della materia. Ci ha sorpreso scoprire che combinando l’inclinazione individuale e il materiale prescelto nel crogiolo dell’automatismo è possibile creare uno spazio non ancora visto né conosciuto.” Queste parole del pittore Jiro Yoshihara troveranno riscontro nella straordinaria vitalità degli artisti attivi nel movimento Gutai e nelle loro sorprendenti opere.

Il gruppo Gutai Bijutsu Kyokai (Gutai Art Association) si costituì nel 1954 ad Ashiya, tra Kobe e Osaka, su iniziativa di Yoshihara, che rivestì il ruolo di fondatore carismatico e di riferimento indiscusso del gruppo di giovani artisti, composto inizialmente da Shozo Shimamoto, Akira Kanayama, Chiyu Uemae e Tsuruko Yamazaki a cui si aggiunsero Sadamasa Motonaga, Saburo Murakami, Kazuo Shiraga, Fujiko Shiraga, Yasuo Sumi, Atsuko Tanaka e Michio Yoshihara. Gutai sarà attivo per diciotto anni, fino al 1972, data della morte del maestro Yoshihara. Il termine “Gutai” significa concreto, inteso in opposizione ad astratto o figurativo, e rivela l’interesse concettuale del gruppo per i temi dell’atto creativo e dei materiali. L’esposizione focalizza l’attenzione prevalentemente sul primo e secondo periodo del movimento (1954-1960 e 1961-1964 circa), caratterizzati dalla massima intensità nella sperimentazione, riflesso di un momento storico nel quale i profondi mutamenti in atto nella società nipponica si riverberavano sull’arte. In particolare vengono sondati gli aspetti legati all’azione, alla performance e all’installazione, a quegli aspetti concettuali che preludono all’happening, a Fluxus e alla Land Art. Tale dimensione della ricerca di Gutai, in realtà autentico propulsore di tutto il movimento, è stata parzialmente messa in ombra dal successo immediato della tangente di matrice-pittorico gestuale, quella che maggiormente ha contribuito alla diffusione internazionale del movimento negli anni cinquanta, per una sintonia, in realtà problematica, con le esperienze coeve dell’Informel e grazie al lavoro critico e di promozione dell’autore di Un Art autre, Michel Tapié. L’humus culturale sul quale Gutai si andava innestando era quello di un profondo mutamento in atto, una svolta epocale nel Giappone post-bellico contrassegnato da una fortissima spinta verso una modernità tutta ancora da immaginare. Determinante per il nuovo corso della società giapponese fu la democratizzazione del Paese, con il conseguente valore inedito attribuito all’individuo. A segnare ulteriormente l’epoca era la forte tensione, mai sopita, fra slancio modernizzatore e profondo attaccamento alla tradizione – un sentimento espresso mirabilmente nella filmografia di Yasujiro Ozu degli anni cinquanta. Per gli artisti di Gutai ciò si tradusse in una radicale sfida ai limiti: osare l’impensabile per trovare nuove forme espressive atte a restituire una nuova condizione umana. Un desiderio di libertà incondizionata che può, di fatto, essere considerato quale vero e proprio fondamento teorico del gruppo, reso metaforicamente dall’immagine di Saburo Murakami mentre, con un balzo, attraversa la carta tesa su ventun telai, realizzando così una lacerazione simbolica dello spazio tradizionale della pittura.

Osservando le fotografie delle azioni degli artisti Gutai, della prima esposizione dal titolo “The Experimental Outdoor Exhibition of Modern Art to Challenge the Midsummer Sun” o visionando i filmati delle performance – la mostra ne propone alcuni inediti di grandissimo interesse – si ha la misura della radicalità della loro ricerca. Oggi ci si interroga su quale potesse essere lo sconcerto del pubblico giapponese e quale fosse la ricezione a livello internazionale. Per rispondere a quella che non è mera curiosità, ma piuttosto un interrogativo necessario per comprendere quale fosse il posizionamento della poetica Gutai nel periodo storico in cui si è prodotta, si è deciso di riproporre in catalogo una serie di testi storici, affiancati da altri redatti espressamente per questa occasione che, attraverso una rilettura delle tappe fondamentali della storia di Gutai, permettono, da un lato, di approfondire la ricezione e la teorizzazione critica coeva su un fenomeno artistico che proprio per la sua natura sovversiva risultava di complessa lettura e, dall’altro, di verificare, attraverso una disamina incrociata da ambiti culturali diversi, quale eredità abbia lasciato questo movimento nella dimensione estetica contemporanea.

La realizzazione di questo progetto è stata resa possibile grazie al concorso di numerose persone e istituti che desidero ringraziare. Primo fra tutti, Tijs Visser, direttore della Zero Foundation di Düsseldorf, con il quale è stata condivisa ogni fase di ideazione e di realizzazione della mostra. La sua competenza e il suo entusiasmo hanno contribuito in modo sostanziale alla riuscita del progetto. Per questo gli sono profondamente grato. La partecipazione di Fuyumi Namioka è risultata fondamentale per i contatti con gli istituti nipponici e per l’accesso alle fonti bibliografiche giapponesi. Ringrazio Fuyumi Namioka non solo per essere stato un prezioso tramite, ma soprattutto per la sua partecipazione attiva e indispensabile nella configurazione e nell’organizzazione della mostra.

Essenziale per la riuscita del progetto è stata la collaborazione e la gentile disponibilità di Mizuho Kato dell’Ashiya Museum of Art & History e di Koichi Kawasaki dello Hyogo Prefectural Museum of Art: a loro desidero esprimere un vivo sentimento di riconoscenza.

Sono grato agli istituti, agli artisti, archivi, gallerie e collezionisti privati che hanno permesso di realizzare la mostra nella sua completezza rendendo disponibili le opere.

Ringrazio gli autori in catalogo Bruno Corà, Shoichi Hirai, Ming Tiampo, Helen Weestgest, oltre ai già citati Mizuho Kato, Tijs Visser e Fuyumi Namioka, per il loro sostanziale contributo critico. Ringrazio infine Bettina Della Casa per l’impegno profuso nell’organizzazione della mostra e nella curatela del catalogo.


Dal catalogo che accompagna l’esposizione “GUTAI Dipingere con il tempo e lo spazio”

Gli esperimenti di Gutai sul palcoscenico del mondo

Ming Tiampo

Annunciando l’arrivo di una rivoluzione nel campo dell’arte, la copertina del numero di aprile 1959 della rivista “Notizie” presentava l’artista Saburō Murakami che sfondava un pannello di carta con il braccio alzato in segno di trionfo. Quell’immagine dava l’impressione che l’artista stesse saltando fuori dalle pagine della pubblicazione torinese d’avanguardia. Pagina dopo pagina, il numero speciale dedicato al movimento Gutai metteva in risalto le audaci sperimentazioni artistiche, le rivoluzionarie mostre all’aperto e le esibizioni sul palcoscenico del gruppo giapponese: Kazuo Shiraga che dipingeva con i piedi; le opere di Atsuko Tanaka con le luci delle lampadine accese; Shōzō Shimamoto in posa davanti a un dipinto realizzato con un cannone e i tubi pieni d’acqua che scintillano sotto il sole appesi ai rami di un albero di Sadamasa Motonaga. Il semplice fatto che un collettivo tanto distante dai centri mondiali dell’arte (gli artisti non erano neppure di Tokyo) fosse presentato su una rivista internazionale dimostrava la straordinaria capacità di comunicazione che consentì ai radicali esperimenti di Gutai di conquistare la ribalta mondiale.

Il movimento Gutai (1954-1972) fu fondato da Jirō Yoshihara nella città di Ashiya, tra Kobe e Osaka. Il nome Gutai significa concreto, inteso in opposizione ad astratto o figurativo, e rivela l’interesse concettuale del gruppo per gli annosi temi della rappresentazione e dei materiali. Benché i 59 artisti che ne fecero parte nei 18 anni della sua storia provenissero tutti dalla regione di Kansai nel Giappone occidentale, l’impatto di Gutai fu globale: le sue attività furono note in quattro continenti ed esso divenne il movimento artistico più celebre del Giappone postbellico. Il presente saggio individua quattro importanti settori di ricerca di Gutai: gli esperimenti con i materiali, le mostre all’aperto, le esibizioni sul palcoscenico e l’apertura verso le avanguardie internazionali.

Esperimenti con i materiali

“La nostra attuale consapevolezza ci porta a considerare le opere d’arte convenzionali come contraffazioni che ostentano un’apparenza ricca di significato […] L’arte Gutai non trasforma la materia. L’arte Gutai dà vita alla materia. L’arte Gutai non falsifica la materia”.

Manifesto Gutai (1956)

Secondo Gutai e secondo molti artisti attivi negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la pittura così come era esistita fino ad allora non era più adatta a rappresentare la condizione umana. Gli esperimenti del gruppo con le tecniche e i materiali avevano una motivazione etica oltre che artistica, ossia l’esigenza di articolare la forma d’espressione consona a una nuova epoca di autenticità e autonomia creativa in opposizione alla psicologia di massa del passato militarista giapponese. Gli artisti di Gutai adoperarono i materiali umili della vita quotidiana per compilare un vocabolario espressivo pertinente alla loro generazione e definirono il rapporto tra artista e medium nei termini di un’associazione creativa. Utilizzarono legno, acqua, plastica, carta di giornale, lamiera, tela, lampadine, fango, sabbia, luce, fumo, fiammiferi e qualsiasi altra cosa avessero a portata di mano. Nella maggior parte dei casi la sperimentazione di materiali non artistici condotta in nome della “nuova pittura” prese la forma di quelle che oggi chiamiamo performance, installazioni, sound art e arte multimediale. Questi artisti saltavano attraverso pannelli di carta, liberavano il suono dalle rigidità delle regole della musica e la luce da quelle dei film. Quando dipingevano usavano il più delle volte tecniche nuove, rifiutando il pennello in quanto strumento artificioso e di maniera: Shiraga scivolava sulla tela sporcandosi i piedi di colore; Yasuo Sumi dipingeva con un abaco e un motore vibrante, Michio Yoshihara con una bicicletta, Shimamoto sparava il colore utilizzando cannoni e bottiglie di vetro  e Akira Kanayama usava automobiline giocattolo per intessere complesse reti di colore sgocciolato sulla tela.

Gli esperimenti di Gutai con i materiali presero forme diverse. Alcuni artisti abbracciarono la tesi secondo cui “Nell’arte Gutai lo spirito umano e la materia si stringono la mano pur rimanendo rivali”, e la interpretarono come una sorta di automatismo. I lavori limpidi di Toshiko Kinoshita, che ideò dipinti colorati che si rivelavano lentamente alla fine di un processo chimico, sono esempi eccellenti di questa tendenza del primo Gutai. Nello stesso ambito si collocano le opere di legno bruciato di Toshio Yoshida in cui il calore si sostituisce al colore per unirsi al legno e creare un segno. Shimamoto lasciava la forma finale delle sue opere esplosive all’interazione casuale tra pigmento, tela, vetro e velocità. Anche i dipinti di smalto versato di Motonaga, tra cui Work 32 (1963), prevedevano che la mano dell’autore stesse a una certa distanza dalla tela in modo da consentire ai materiali di affermare se stessi. In maniera analoga, i lavori di Shiraga, dipinti con i piedi come quasi ad attestare la rinuncia al controllo, possono essere interpretati come un rapporto tra artista e materiali che ignora il ruolo dell’homo faber.

Altri componenti di Gutai trovarono i loro materiali nell’ambiente naturale. Michio Yoshihara inseriva mucchietti di sabbia all’interno di scatole piene di lampadine che poi scolpiva meticolosamente a forma di cono, simili alle pile di sabbia che nei templi shintoisti evocano il monte Fuji. Shiraga utilizzò la pelle di cinghiale nella serie Wild Boar Hunting (1963) e il fango nelle sculture morbide e nella performance Challenging Mud (1955). I lavori con l’acqua, il fumo e le pietre di Motonaga rappresentano forse gli esempi più virtuosistici di questa tendenza. Motonaga iniziò a sperimentare i materiali naturali in occasione della “First Gutai Art Exhibition”, appendendo sacchetti pieni di acqua colorata alle finestre dello spazio espositivo accanto a sassi dipinti raccolti nell’area di Tokyo. Nel 1956, un anno dopo, l’artista costruì Smoke, la sua prima macchina produttrice di anelli di fumo che fu presentata anche in altre esibizioni sul palcoscenico e alla Expo ’70.

Ovviamente molti artisti Gutai trovarono ispirazione nei materiali e nelle nuove tecnologie frutto della rapida industrializzazione del Giappone. Yoshihara, uno dei fondatori del gruppo, fu il primo a introdurre la luce nel semplice ma rivoluzionario Light Art (1955). Il suo esempio fu seguito dal figlio Michio, da Toshio Yoshida autore della lanterna giapponese d’avanguardia chiamata Andon (1956) e da Atsuko Tanaka che ottenne i risultati più spettacolari. A partire da Stage Clothes del 1956 – sette imponenti sagome umane stilizzate ricoperte di tubi colorati illuminati – Tanaka realizzò una serie di lavori con la luce tra cui i complicati dipinti elettrici e il celebre Electric Dress. Ma la luce non fu l’unico elemento del nuovo Giappone usato dagli artisti Gutai. Tanaka combinava materiali diversi come l’elettricità, il poliestere e le vernici sintetiche, Tsuruko Yamazaki invetriava fogli di latta, Kanayama dipingeva con un’automobilina elettrica e Yoshida sognava di poter dipingere da un elicottero.

Confrontandosi con questa straordinaria eredità e con altri movimenti artistici internazionali, la seconda generazione di artisti Gutai, attiva negli anni Sessanta, mise al centro del proprio lavoro la sperimentazione di nuovi materiali e tecnologie. Molti approfondirono la riflessione sul futuro dell’umanità esplorando il rapporto tra tecnologia e corpo. Takesada Matsutani sperimentò nuove colle industriali per creare pellicole traslucide e forme massicce che irrompevano sulla superficie dei suoi lavori. Norio Imai usava i motori per animare l’erotismo minimalista delle sue tele completamente bianche, tese sopra forme mobili che sembravano corpi pronti a lacerare il loro imballaggio. Minoru Yoshida creò grandi sculture mobili, quali Bisexual Flower, fatte di plastica, liquidi luccicanti, motori e luci al neon che evocavano inquietanti visioni distopiche. In effetti le innovazioni tecnologiche rappresentavano una tale preoccupazione per questi giovani artisti da spingerli a organizzare “Gutai Art for the Space Age”, una mostra del 1967 caratterizzata da opere che si muovevano, lampeggiavano, ruotavano vorticosamente, pulsavano e scintillavano.

Esperimenti all’aperto

“Quando portai il lavoro finito nel sito dove si sarebbe tenuta la mostra rimasi sconvolta e sbalordita. Era come se qualcuno mi avesse dato un colpo in testa con tale forza da farmi svenire. La mia opera appariva del tutto insignificante e banalmente intenzionale. Emanava un’energia che non era né infinita illimitata né massiccia”.

Fujiko Shiraga (1956)

L’arte Gutai ebbe tra i suoi componenti fondamentali la cultura della sperimentazione, incoraggiata dalle mostre innovative organizzate dal leader del gruppo Yoshihara. In particolare si ricordano quattro importanti esposizioni all’aperto, “Experimental Outdoor Exhibition of Modern Art to Challenge the Mid-Summer Sun” (1955), “Outdoor Gutai Art Exhibition” (1956), “One Day Only Outdoor Exhibition” (1956) e “International Sky Festival” (1960), a cui si possono aggiungere i lavori all’aperto presentati nel corso di collettive come “First Gutai Art Exhibition” (1955) ed “Expo ’70”. Come si evince dalle parole di Fujiko Shiraga, queste mostre obbligavano i partecipanti a confrontarsi con lo spazio espositivo, per sviluppare una piena consapevolezza del rapporto tra oggetto e sito. Anzi era proprio questa associazione forzata tra i due elementi a fungere da catalizzatore nella creazione di lavori a cui non è stato ancora riconosciuto il valore di precursori delle installazioni, della land art e dell’estetica relazionale.

Forse perché per raggiungere il sito della mostra gli artisti provenienti da Osaka dovettero affrontare un viaggio di nove ore, molti lavori di grandi dimensioni esposti alla “First Gutai Art Exhibition” di Tokyo furono realizzati sul posto. Benché questa sia oggi una prassi comune tra gli artisti giramondo delle biennali, all’epoca si trattò di un evento del tutto insolito. Ne nacquero una serie di opere frutto di profonde riflessioni sullo spazio: Tanaka creò Work (Bell), una serie di campane che suonavano in sequenza quando l’osservatore premeva un pulsante, delimitando uno spazio architettonico con il suono; Murakami ricoprì di carta l’ingresso della mostra, che poi fu lacerata da un salto di Yoshihara che metteva in atto la sua Entrance; Yamazaki collocò barattoli di alluminio verniciati di rosso direttamente sul pavimento della galleria, facendo a meno del piedistallo, e Shiraga diede forma tridimensionale ai suoi lavori dipinti con i piedi e realizzò Challenging Mud  tuffandosi in un ammasso di fango, pietre, sabbia e cemento per lasciare l’impronta del proprio corpo dopo una lotta artistica. Da questi primi esperimenti sulla relazione tra spazio e oggetto nacque una consapevolezza della specificità del sito che fu approfondita nelle mostre successive. All’epoca della quarta esposizione all’aperto, la “Outdoor Gutai Art Exhibition” del 1956, gli artisti erano già andati oltre la semplice specificità del sito e avevano sviluppato un vocabolario artistico legato all’ambiente naturale, definendo quel territorio che più tardi sarebbe stato reclamato dalla land art. Tra le opere esposte spiccò in particolare la monumentale Work (Water) di Motonaga, un’installazione di strisce di plastica contenenti liquidi colorati lucenti come gioielli sospese tra i rami degli alberi. In contrasto con i lavori precedenti, esposti per lo più al chiuso, in cui l’artista aveva impiegato materiali naturali, questa installazione dialogava con l’ambiente circostante riecheggiando e amplificando il rapporto fra alberi e acqua che già caratterizzava il sito, posto tra il fiume Ashiya e la vicina spiaggia. Per quanto minimale, l’opera di Michio Yoshihara intitolata Discovery (1956), rappresentava un radicale intervento sull’ambiente: una semplice buca scavata nel terreno e illuminata che prefigurava le azioni simili ma più celebri di Claes Oldenberg e Nobuo Sekine. Sempre intrisi di echi filosofici, gli interventi di Saburō Murakami si limitavano a incorniciare l’ambiente: anticipando gli analoghi lavori di Yoko Ono e James Turrell, il suo Work (Sky) era costituito da una tenda con un’apertura sul tetto attraverso cui i visitatori potevano ammirare il cielo come fosse un’opera d’arte.

Da queste azioni all’aperto emerse anche un’idea molto matura di interattività. Il fatto di collocare le proprie opere in spazi pubblici e non al chiuso delle gallerie spinse gli artisti Gutai a prendere in considerazione la presenza di un pubblico di non addetti ai lavori. I visitatori della prima mostra all’aperto, l’“Experimental Outdoor Exhibition of Modern Art to Challenge the Mid-Summer Sun” del 1955, raggiungevano il sito durante le loro passeggiate dopo cena o di giorno in compagnia dei bambini e mentre osservavano le opere esposte non potevano fare a meno di interagire con esse, toccarndole o camminandoci sopra. Dopo questa prima esperienza Shimamoto scrisse sulla rivista “Gutai”: “Ciò che considero avanguardia è il coinvolgimento della gente comune nella produzione di un’opera d’arte”. Di conseguenza i lavori creati per la successiva “Outdoor Gutai Art Exhibition” del 1956 incoraggiavano esplicitamente il pubblico a intervenire: Please Draw Freely  di Yoshihara lasciava ai visitatori della mostra l’atto della creazione, Please Walk on Here di Shimamoto era una composizione di assi salde e altre traballanti su cui bisognava camminare e All the Landscapes di Murakami invitava i convenuti a usare le cornici fornite dal gruppo per creare la propria opera d’arte nel paesaggio.

Esperimenti sul palcoscenico

“Fino a oggi, il tempo non ha fatto parte della pittura come elemento concreto. I cubisti raffiguravano su un’unica superficie le forme che illustravano i diversi aspetti del tempo. I futuristi tentavano di rappresentare il movimento stesso. Ma si trattava pur sempre di singoli dipinti la cui interezza si coglie all’istante. Il tempo fa parte soltanto del contenuto intellettuale di un quadro ed è espresso semplicemente come un’immagine di se stesso… Il desiderio di scoperta che anima il gruppo Gutai esige la presenza dell’elemento temporale oltre a quello spaziale per ottenere un effetto estetico completo. Il tempo dello spazio e lo spazio del tempo: si tratta di un concetto di pittura che assume un nuovo significato”.

Saburō Murakami (1957)

Se le mostre all’aperto spronavano i partecipanti a riflettere sulla questione dello spazio, le esibizioni sul palcoscenico presentavano una nuova sfida: il tempo. In effetti i lavori eseguiti sul palcoscenico erano, a rigor di termini, dipinti nel tempo e nello spazio (o dipinti-performance) e in quanto tali costituivano una sfida concettuale al piano pittorico più sottile rispetto agli attacchi portati dagli happening e dalle performance. Gli artisti Gutai parteciparono come collettivo a quattro esibizioni sul palcoscenico, Gutai Art on the Stage (1957), 2nd Gutai Art on the Stage (1958), Don’t Worry, The Sky Won’t Fall Down! (1962) e Gutai Art Festival (1970) e disegnarono le scenografie per il 4th Summer Festival (1967).

Ovviamente molti lavori ideati per il palcoscenico consistevano in vere e proprie azioni di pittura teatrali. In occasione di “Gutai Art on the Stage” del 1957, Kōichi Nakahashi lanciò dozzine di palle coperte di colore su una tela bianca, mentre Yasuo Sumi versò il colore contenuto in alcuni secchi su un telo trasparente appeso sul proscenio in modo che il pubblico avesse la sensazione di essere colpito dalla vernice. L’anno dopo anche Yoshihara creò un dipinto sul palcoscenico e nel 1962, durante “Don’t Worry, The Sky Won’t Fall Down!”, Shūji Mukai dipinse i suoi caratteristici simboli su una tela composta da dodici teste cantanti, zittendole una ad una con pennellate di colore fresco sul volto.

Mukai non fu l’unico a interessarsi di musica. Le esibizioni sul palco spinsero molti artisti Gutai a esplorare alcuni aspetti delle arti dello spettacolo che non trovavano spazio nelle gallerie, sperimentando l’uso della musica, della luce e del movimento. Shimamoto, Michio Yoshihara e Motonaga idearono brani musicali per le esibizioni teatrali di Gutai. Nel 1957 Shimamoto tentò di affrancare il suono dalle strutture della musica manipolando suoni elettrici. Una forma altrettanto libera aveva Frameless Music di Michio Yoshihara e Motonaga che abbandonarono le regole della composizione a favori dei puri effetti sonori. Anche gli artisti che lavorarono con la luce evitarono deliberatamente di assegnarle il ruolo solitamente ricoperto nel cinema e nel teatro. Nel corso del “Gutai Art on the Stage” Yamazaki volle svincolare la luce dalle regole dell’azione filmica, mentre Yoshida sperimentò la creazione delle ombre con le luci di scena. Il movimento fu una componente importante dei lavori presentati sul palcoscenico. Degni di nota furono in particolare i contributi di Tanaka nel 1957: Stage Clothes consisteva in uno striptease avanguardistico con cui l’artista creava un “dipinto” mobile sul proprio corpo staccando strati di tessuto e aprendone altri, mentre Electric Dress (1956) era composto da tre abiti di lampadine colorate indossati da assistenti (erano troppo pesanti perché li portasse l’artista stessa) che attraversavano il palcoscenico con estrema cautela.

Nelle successive esibizioni il gruppo continuò a presentare lavori di questo genere ma nel “Gutai Art Festival” organizzato per l’Expo ’70 fu introdotto un elemento destinato a occupare un ruolo preminente nell’arte Gutai dell’ultimo periodo: le nuove tecnologie. Oltre a presentare una rassegna delle attività di Gutai fino a quel momento, il “Gutai Art Festival” diede voce anche agli interessi che i componenti più giovani del gruppo avevano già espresso in “Gutai Art for the Space Age”. In occasione del festival furono presentati lavori collettivi costituiti da estensioni del corpo che consentivano agli autori di saltare coprendo ampie distanze, cani meccanici e automobili di plastica illuminate. L’opera intitolata Robot Mother and Child immaginava un futuro in cui anche i robot avrebbero avuto figli.

L’apertura verso le avanguardie internazionali

“Crediamo che si tratti di lavori che segneranno un’epoca e di uno stile di presentazione che non ha precedenti né in Oriente né in Occidente”.

Jirō Yoshihara (1957)

Nel volume intitolato Gutai: Decentering Modernism sostengo che gli esperimenti di Gutai con i materiali, all’aperto e sul palcoscenico fossero proposte rivolte al mondo dell’arte inteso nella sua globalità. Sin dall’inizio Gutai fu legato, per quanto in maniera critica, al modernismo internazionale e i suoi lavori furono indirizzati al pubblico di tutto il mondo. Il movimento, che era nato nella regione di Hanshin tra Osaka e Kobe, affondava le radici nella lunga storia del modernismo Hanshinkan che aveva sempre guardato con interesse all’estero. Formatosi in questa tradizione, già nel periodo che precedette la Seconda Guerra Mondiale Yoshihara si distinse come pittore surrealista e astratto diventando un esponente di punta della comunità artistica. Trascorse gli anni del conflitto in ritiro ma tornò a lavorare a guerra appena conclusa, trovando una forte motivazione nella possibilità di un cambiamento radicale e nella collaborazione internazionale. A questo scopo Yoshihara si diede molto da fare per la formazione di diversi movimenti artistici locali, in particolare il Genbi (Gruppo di discussione sull’arte contemporanea) che fu un’importante occasione di incontro fra artisti che cercavano di dare espressione a una voce postbellica associata sia alle tradizioni giapponesi sia al modernismo internazionale. Yoshihara lasciò il Genbi per fondare il Gutai nel 1954, ed è importante prendere in considerazione le ragioni che lo spinsero a farlo. Stando ai racconti di Shōzō Shimamoto, Yoshihara voleva abbracciare fino in fondo il modernismo internazionale, evitando l’approccio di Genby più orientato sull’arte locale.

Nato da una famiglia benestante, Yoshihara aveva le risorse per mantenere una vasta biblioteca di pubblicazioni d’arte nazionali e straniere. Fu proprio in rapporto a ciò che vide sulle pagine di quelle riviste che Yoshihara valutò la produzione di Gutai e conobbe le esperienze di altri artisti. Non fu un caso quindi che nel 1955 il primo impegno del gruppo non fu l’allestimento di una mostra bensì la pubblicazione di “Gutai 1” che si proponeva di raggiungere “persone di tutto il mondo.” In effetti Yoshihara utilizzò la stampa e soprattutto la rivista “Gutai” per dare vita a una comunità artistica immaginata, anticipando Dimanche: journal d’un jour di Yves Klein del 1960 e Homes for America di Dan Graham del 1965. La rivista del movimento fu mandata ai potenziali interlocutori in Giappone e all’estero ed originò la rete che collegava Gutai ad artisti, critici e curatori di quattro continenti. La prima tessera di questo domino cadde quando Gutai inviò due o tre numeri della pubblicazione a Jackson Pollock, il che portò a una serie di incontri interessanti in particolare con B.H. Friedman e Ray Johnson. Altre copie finirono tra le mani del critico francese Michel Tapié che poi collaborò con Gutai per dieci anni; nacquero così le mostre del gruppo a New York, Parigi e Torino e contatti con il mondo dell’arte internazionale. La fama di Gutai crebbe di pari passo con la sua esposizione sulla stampa: quotidiani e riviste d’arte internazionali si occuparono del gruppo e l’articolo pubblicato sul “New York Times” fu poi letto da Allan Kaprow. I lavori di Gutai furono anche analizzati in volumi critici quali Assemblage, Environments and Happenings (1966) di Kaprow e Continuités et avant-garde au Japon (1961) di Tapié, che segnò l’avvio della fruttuosa collaborazione con il gruppo Zero.

Non si trattò di rapporti unicamente virtuali. Gutai tenne mostre in Austria, Francia, Olanda, Italia, Giappone, Sudafrica e Stati Uniti e partecipò a diverse collettive anche in Messico e in India. Alcuni artisti Gutai vissero o studiarono all’estero, in particolare Takesada Matsutani, che si trasferì a Parigi nel 1966 e Sadamasa Motonaga che soggiornò a New York dal 1966 al 1967. Ogni nuova mostra generava nuovi contatti che andavano a ingrandire la rete di interlocutori, artisti che spesso i componenti del gruppo invitavano a lavorare ed esporre in Giappone. Oltre alle mostre di Georges Mathieu e Lucio Fontana, Gutai organizzò manifestazioni quali “International Art of a New Era: Informel and Gutai” (1958) e “International Sky Festival” (1960) a cui parteciparono molti artisti internazionali.

Nel 1962 Gutai aprì un proprio spazio, la Gutai Pinacotheca, che oltre ad ospitare le mostre del gruppo e di altri artisti giapponesi e stranieri, divenne ben presto un punto d’incontro internazionale, tappa obbligata di ogni artista, critico, collezionista o curatore che visitava il Giappone. Tra il 1962 e il 1970, la Pinacotheca accolse, tra gli altri, John Cage, Peggy Guggenheim, Yōko Ono e Pierre Restany (1962); Lawrence Alloway, Roland Gibson e Jean Tinguely (1963); Alice Baber, Merce Cunningham, Sam Francis, Paul Jenkins, Jasper Johns, Robert Rauschenberg, William Lieberman e Isamu Noguchi (1964); Clement Greenberg (1966); Geoff Hendricks (1968); Billy Klüver (1969) e Willem de Kooning (1970). Alcuni di questi ospiti divennero amici e collaboratori dei membri di Gutai. John Cage visitò la Pinacotheca tre volte e dichiarò entusiasta: “Qui mi sento benissimo”. Paul Jenkins fu uno degli artisti ospiti della Pinacotheca e ricordando con piacere le lunghe ore di confronto creativo con gli artisti di Gutai osservò: “Eravamo l’uno sotto l’incantesimo dell’altro.”

L’evento che meglio simboleggia l’internazionalismo di Gutai fu forse il modo in cui il gruppo si sciolse. Sempre impegnato a definire il ruolo della spettacolare arte sperimentale di Gutai sui palcoscenici del mondo, il 23 gennaio del 1972 Yoshihara era al telefono con l’ambasciatore olandese in Giappone per organizzare un Gutai Sky Festival nei Paesi Bassi quando fu colpito da un infarto. Morì meno di due settimane dopo, il 4 febbraio, lasciando Gutai senza un leader. A distanza di un mese i membri del gruppo decisero di sciogliere l’associazione dopo diciotto anni di risultati straordinari.



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