I MISTERI DELLA MONTAGNA
INCANTATA
Miti e leggende intorno alla Garzirola. Fuga insubrica in uno zibaldone
magnanesco di Gabriele Alberto Quadri
INTRODUZIONE E
PRELUDIO
Che cosa spinge certe persone verso le sommità, verso oscuri e poco
praticati valichi alpini? Curiosità, spirito d’avventura, oppure un
tentativo di fuga, di sfida atavica e irrazionale?
Ogni montagna, ogni vetta, infatti, racchiude in sé il dinamismo e l’idea di
un’elevazione, di un’ascesa.
Talvolta, ciò che più le attira è però l’oltre, l’al-di-là, i nebbiosi
oceani dell’Ignoto.
Navigatori della terraferma, il raggiungimento di un “passaggio” che conduca
le loro tormentate anime oltre i confini del loro stesso esistere,
corrisponde ad un’ancestrale necessità d’iniziazione.
Il tortuoso e intricato percorso per raggiungere la meta tanto agognata
esige allora abnegazione assoluta, fatica, iniziativa, sofferenza: tappe
dell’esperienza senza le quali non si può accedere ai lavacri della
purificazione, della meritata catarsi finale.
Le cime sembrano lanciare loro un guanto di sfida, obbligando quei temerari
ad una ferrea disciplina di vita, indicando loro una condizione d’eterno
pellegrinaggio interiore.
Ciò nonostante i traguardi dell’ascesa, affacciando quelle anime belle agli
immensi spazi offerti dalle altitudini, le trasportano nella dimensione del
visionario regalando ai loro trepidi cuori attimi di vera apoteosi.
Tanto per non disorientare il Lettore, ricordo che lo stile magnanesco
dell’autore, obbligato al nomadismo professionale, quindi alla creatività a
singhiozzo del “bütt e scarpüsc”, risulta inficiato, compromesso
irrimediabilmente dalla buggeratura concreta delle innumerevoli pignatte
dategli in consegna. L’invenzione quindi di uno pseudoracconto ad effetto
caleidoscopico va di conseguenza dovutamente spiegata.
Voluto “per amore o per forza”, il frammentismo del testo (con tuttavia
nobili
ascendenze letterarie) più che a smaglianti tessere di mosaico, si può ben
paragonare, nella vaga struttura portante, a svariatissime composizioni
geometriche dotate di una certa qual simmetria rispetto ad un punto
centrale: barlumi quindi, riflessi di alcuni frammenti d’ispirazione
variamente colorati con incursioni contaminanti nel dialetto e nel rügín,
lingua segreta degli artigiani ambulanti del rame.
La sottotitolazione e le illustrazioni dovrebbero pure svolgere l’importante
funzione di guidare l’appassionato lettore al pieno godimento de “I misteri
della montagna incantata”. Si spera così che con tutti questi rattoppi, con
tutte le saldature a bassa temperatura, l’abilità dello stagnino possa
permettere a “caldére” e pignattini di svolgere ancora, senza “far” troppa
”acqua”, le rispettive funzioni culinarie.
I MISTERI DELLA
MONTAGNA INCANTATA
L’exemplum della “bürbora” negata
Il povero questuante impresse al vetusto marchingegno una tal carica
d’energia che lo scampanellamento offese non poco le trombe uditive
dell’umile servo Filiberto da Maiorca.
Un lamentoso sibillino suon di corno sembrò accompagnare il garibaldino
giramondo che aveva scampanellato. Visioni apocalittiche lo tormentavano,
l’Evangelista di Pàtmos gli aveva ricucito la sdrucita mantellina. A lui,
come secoli prima al massimo divo pagano, era toccata la brutta sorte di
doversi travestire da mendico cristiano. E tutto ciò per un piatto di
minestra!
D’altro canto, più che servo d’ovina mansuetudine, il padre portinaio era
uomo di potere. Simbolicamente, da sotto la nera mantellina, l’insolito
pellegrino lasciò scivolare sul granito dell’atrio una carta dei tarocchi:
quella del Papa.
Ecco, quel premuroso buonismo molto convalligiano non mascherava altro che
un’altezzosa sprezzatura.
Dagli scantinati dell’antico romitaggio filtravano intanto le sguaiatezze
d’un banchetto: qualcuno, là sotto, stava gozzovigliando, incurante del bel
mondo, dei pettegolezzi, dei millenari pregiudizi anticlericali.
“Razza di vipere!” urlò un commensale, poi più nulla, un silenzio bigotto
stragonfio di complicità e di furberìa.
Un sole trasfigurato lasciava indovinare tutta la crudezza simmetrica delle
mura, frutto di un recente restauro innovativo: vi si poteva leggere come in
un incunabolo l’architettura del rinascimentoso regime, il tocco bramantino
del gran Magistro quadrellatore.
Un’ingombrante quadreria s’impose al disarmato visitatore valligiano, al
mite insubrico squattrinato.
Era in questo sfoggio di cultura antica, nello svolazzare di drappeggi
barocchi, nelle rabbiose spatolate dei moderni che il vetusto chiostro s’era
dinamizzato in posada, in aprico parador de la panza.
Tutto era effettivamente possibile nella Repubblica delle Castagne! dalle
sinergìe salottiere alla paleografìa impegnata, dalla “bürbora”o minestra di
zucche al cilicio penitenziale per la polpettosa goduria delle collegiali.
Una comunione di polli starnazzanti e di feconde pollastre razzolava,
infatti, devotamente nel cortiletto della pappatoia cenacolare. La speranza
d’un rinascimento vandeano e tridentino aleggiava come un roboante moscone
sul tetto della ragnatosa biblioteca.
Tutto sembrava predisposto per un’ennesima liberazione dal vulgo incolto e
sciocco, dal perverso tanfo giacobino degli dei falsi ed illuminati.
Dalla nostrana Bastiglia si levò un inno di chiara ascendenza meneghina, ma
come in un cartiglio si librò nel cilestrino d’un pietistico affresco, si
animò, petulanteggiò, e di lì a poco sbofonchiò disanimato.
L’indomito “cocinero” aveva foraggiato oltre misura le mire espansionistiche
dell’allegra congrega digerente.
Troppo lottizzato il pollaio più non strillonava. I martiri cuccagnardi
s’apprestavano alla penitenza del pane e salame: insolito accademico dessert
canonizzato nel vin santo.
Urgeva una terapìa dimagrante, un convegno, meglio ancora un simposio
sull’obesità rigorosamente annaffiato di ratafià e strabenedetto dall’acqua
di rose, già in auge, come tutti sanno, nella culinaria più ortodossa dei
Balcani.
Nefandezze da turchi, maggioranze da bulgari! Il Diavolo s’era alleato con
l’Acqua Santa.
Con ancora il salamesco profumo fra le nari, il questuante pensò bene di
togliere il disturbo e, in buon ordine, di ritirarsi.
Mai e poi mai, nonostante una celtica fame da lupi, avrebbe condiviso la
“bürbora” avvelenata con gl’intrugli cortigiani della belladonna!
Il “Lucente dal lungo braccio” (così fu designato nella sua trentesima
reincarnazione) sfiorò appena la tonaca del padre, scosse la polvere dei
coturni sulla soglia di quello che, un tempo, era considerato un luogo di
raccoglimento, e in un batter d’occhio privò della sua oscura presenza la
conventicola dei digerenti cesaropapisti.
Soltanto chi avesse bagnato gli occhi nelle fontane delle Tre Sorelle
avrebbe goduto d’una vista interiore. Era infatti necessario che le tre
Matrones potessero vedere e benedire il santo desiderio delle ancor orbe
creature prive della primigenia purezza.
Purificate dalle scorie delle vite precedenti si sarebbero, per così dire,
purgate dell’antica pena delle trasmigrazioni culinarie.
“Che avete fatto della mia casa?” sembrava intanto ripetere l’eco del monte.
“Una spelonca di ladri?”
Pochi attimi dopo, un rabbioso indomabile incendio divampava dalle cucine di
corte. Un lugubre suon di corno rabbrividì il pecorame sparso sugli alpeggi:
Lug, il dio lucente dal lungo braccio, vendicava così a suo modo la pelosa
carità degl’incappucciati gaudenti.
Volute barocche si sprigionarono tortuosamente dalle possenti travature del
tetto.
Come in un’antica miniatura, autentica poesia visiva, l’apocalittica gran
Prostituta era in fiamme.
All’esterno del monasterio, intanto, signorilmente in disparte, si levarono
due candide figure d’Accademici.
Alto si levò nel contempo un drappello di colombi. Poi, uscendo
dall’allegorica cornice, quale cerbero della lombardità più schietta, il più
insubrico dei due apostrofò garbatamente il bosinatore in prosa del
neoceltico exemplum, della punizione esemplare:
- Siamo di passo, vero, de’Quadrio? Ma non tema di sforacchiare il sacco
amniotico della sua Pieve, suvvia! Spicchi anche lei il suo volo!
- Un altro scapigliato che s’incendia alla fede del nostro Carlín – commentò
con leggiadra sprezzatura l’intonacato, vero pozzo d’erudizione, che
accompagnava il lombardinatore.
- Amico comune, caro Collega, ma gli è che questo figlio della caldera s’è
cacciato in un brutto pasticciaccio.
- Vanitas vanitatum! Proprio ora che ha visitato le nostre catacombe di
Palermo?
- Sì! Proprio ora che l’ha baciato in fronte la madonna del Gagini.
L’amato maestro e donno, che l’amabile frequentazione dei figli del
Poverello aveva onorato del dono della trilocazione, trovandosi
contemporaneamente al Politecnico turicense, all’Alma mater pavesina e
nell’attonita mente degli studenti, tossicchiò indispettito al perdurare
della caligine conventuale.
Bella imortal! Benefica Letteratura, scrivi ancor questo, allegrati! Ché più
solerte critico al non saper d’un popolo giammai non s’ascoltò. Tu delle
stanche voci sperdi ogni ria parola: un nuovo Dante ancora, ch’Italia segue
e onora, in sul romito poggio il Quadrio ammaestrò.
La laboriosa e fervida gioia di darvi un segno, l’ansia dell’uom lombardo
scrive, sempre pensando al meglio; e tenta un corso ch’era follìa sperar…Ma
tiremm innáanz!
Il cranio insubrico
Affacciatosi alla finestruola del suo speco gli parve d’intravedere alcuni
bagliori in lontananza, di là dal colle di san Bernardo, forse sul lago, o
meglio degli ampi spazi che s’aprivano sulla metropoli padana. Bagliori
tartarei accompagnati da rauchi suoni indistinti di trombe…
Oltrepassata la soglia dell’antica Pieve, l’occhio del predestinato scorse
veloce sul bianco marmoreo d’un altare laterale, insigne per la purezza dei
simboli, pregiato materiale forse di recupero da una precedente ara pagana.
La lignea raffigurazione della Vergine, simulacro di materna dolcezza,
dirimpettava nella sua preziosa doratura, il macabro altare dei Morti.
Reincarnatasi dagli abissi di Madre Terra, come un’antica dea, lo sguardo
d’umana pietà, vera consolazione degli afflitti, lo spronava in quel suo
scavo antropologico. Con un intrepido tuffo si stava per avventurare fra i
flutti e i meandri ultramondani dell’ignoto e dell’inconscio.
E l’umile pellegrinaggio fra i monti criviaschi ebbe inizio.
Dall’ispido Cardo dei primi secoli, forse il V o il VI, alla Mistica Rosa
della rinascita, l’occhio imprescrutabile del Dio Vivente vegliava sui suoi
passi, l’avrebbe accompagnato come un’ombra paterna nel regno dei
trapassati.
Da quell’iniziazione oltre il tempo e lo spazio, Italo sperava di
riacquisire la smarrita energia primigenia, la linfa vitale che desse nuovo
senso ai suoi giorni nostalgici e brumosi.
Varcata la soglia della Prepositurale s’inoltrò fra l’ombra dei banchi,
oltrepassò la pila dell’acqua santa per inginocchiarsi di fianco all’altare
dei Morti.
Le volte tardogotiche dell’antica pieve elevavano al cielo la muta preghiera
dei trapassati. Le fiamme purgatoriali degli affreschi si frammischiavano
alle fioche luci dei ceri, alle incerte penombre, agli schizzi e ai guizzi
chiaroscurali del suo tempio interiore.
Come in un mondo, in una realtà parallela, si ricordò di come sua madre non
riuscì mai a adattarsi alle anguste prospettive della valle, a certa carità
pelosa dei
parrocchiani, all’invadente morbosa curiosità delle lavandare. Per una donna
venuta dalla città, l’avida schiettezza dei vallerani dovette sembrarle
piuttosto primitiva.
La sua mente andava intanto scarabocchiando una strana epopea, una fuga
dagli aprichi terrazzi della poesia per inoltrarsi, per inerpicarsi sui
groppi della prosa.
Chiazze rossastre macchiavano le montagne, l’aria strabordava di frizzi, il
cielo scoppiettava di luci, ma dinanzi alla Madre d’ogni saggezza si sentiva
un parolaio pieno di fumo. Si umiliò per le sue follie, i ciechi furori
letterari. Negli occhi cavi della Signora colse un lampo d’assenso. Dallo
spuntone barocco d’una colonna precipitò con secco fragore un teschio. Il
cranio che l’angiolo meditabondo aveva per secoli saldamente unghionato fra
le dita della mano si era irrimediabilmente schiantato al suolo. Rotolò sul
lastricato della chiesa, irruppe sulla scena con le parvenze d’un intero
scheletro rappreso dai succhi della vita.
Il bardo locale inorridì, ma non ebbe paura. C’era sempre stato nel suo modo
di vivere un non so che di barbarico, di neogotico.
Di lì a poco, infatti, scricchiolarono le porte della sacrestia, si
sollevarono biecamente diverse lastre del pavimento e riapparvero gli
antichi spettri della Criviascha: nobili in usbergo, avogadri, magistrati
togati, arcipreti anneriti dal fuoco, trecciute matrone, smarriti donzelli,
giullari ridanciani e scapigliati.
Fuori intanto vociavano i casari, i sensali pidocchiosi, i formaggiari con
indosso ancora un alone butirrico e acidoso. In quella stravolta bisunta
“Totentanz” gli artigiani s’accapigliavano, i fabbri con i legnamai, i
norcini con i capimastri. Sotto il leggero colonnato rinascimentale crocchi
di nobildonne cristiane gli lanciavano invettive, caterve di caprai
sbrindellati lo sbeffeggiavano. L’area del Cimitero oltre il muro del
sagrato sembrava un campo di concentramento: ammassati, sgomitanti, ossuti,
pallidi come il latte cagliato i poveri defunti si sforzavano di stare al
ritmo indiavolato della macabra danza. E i morti si slargavano le ganasce in
un ghigno infernale, sarcastico, frammisto al pianto e allo stridor dei
denti.
Stralunato, per nulla intimorito, ma offeso, lo scrittore Italo Adalberto
dell’illustre schiatta de’Quadri, dall’umiliata Marradi del suo cuore lanciò
un urlo, un lungo urlo selvaggio.
Celtici lemmi
Di primo mattino, gli parve che le montagne d’intorno, come scaturite dal
seno della terra, lo volessero accarezzare. Lo “slumavano”, infatti, come
verdi sorelle chiomate. Ampie gonne sinuose lo avvolsero, in cerchio: una
corona di leggiadre damigelle gli avrebbe profumato l’intera incipiente
giornata.
Verso sera fu sorpreso da un’antica melodìa, che aveva già udito molti anni
prima, distrattamente però. Lo smeraldo persistente dei boschi l’aveva
stregato anche quel primo lunedì di settembre. Fresche nebbie svolazzanti
s’erano intanto accumulate sul fondovalle della chiostra: rari pennacchi
erano comparsi come sogni fugaci sotto le vette più alte.
Le volute celesti delle nubi, in quell’immensa scenografia, sembravano
disporre l’anima ad una strana religiosa magìa.
Piogge torrenziali assalirono la notte, inondandola: un’estate ormai
moribonda andava annunciando nel vento anche lui irrequieto ed ansioso,
l’imminenza dell’autunno.
Nel natìo borgo selvaggio, intanto, allo scrosciante frastuono dei bronzi
pievaschi, da sotto il vetusto spiovente della Prepositurale, in quella
nottaccia di breva, si risvegliò anche il testone incastonato alla radice
dei muri perimetrali.
Rantolò dapprima come un vegliardo imbacucchito, sbiascicò incomprensibili
grumi di celtici lemmi, per poi infine urlare a tutto quanto il popolo
criviasco, un enigmatico “Betagn, Carnáagh, Báar!”
Il divo belante, spalancata la sciavattesca boccaccia sembrò rianimare
caterve millenarie d’armenti, insubrici Baradelli, rivisitare bretoni
Carnac, scoperchiare pietre tombali d’abbandonate necropoli.
Proprio ciò che andava scrutando da secoli dalla sua privilegiata postazione
ecclesiale: il betulleto di Bettagno, le misteriose sassère sotto il Motto
della Croce e, più in su il mitico monte Bar.
Da quel volto sofferente e scarnificato si liberava un’energia tutta pagana.
In quell’urlo barbarico e selvaggio si condensava tutta la nostalgia per il
Dio Vivente mai conosciuto.
Italo fu invaso da un senso di profonda “Heimweh” longobarda, dal
malinconico desiderio d’una patria lontana e perduta.
Si ricordò del vecchio zio Adalberto che dalle sbarre dell’ospizio bramava
disperatamente tornare ai suoi monti, “ai áarp”, agli alpeggi dell’infanzia.
Gli tornarono in mente le sfaticate di suo padre, la schiena ricurva sulla
vanga, il caparbio confronto con la terra sassosa dell’ingrata campagna.
Dal negro orifizio del Cernunnos locale, il genius loci, il dio fauno
pagano, fuoruscivano ora nenie cantilenanti, svelte conte bambinesche,
dìstici lapidari, crudi epigrammi graffianti la dura anfibolite della
geologica contrada.
Dalla bocca di quel Dioniso vallerano saettavano parole di pietra scura,
schegge verdastre venate appena di ghirigori biancastri. La via dei monti,
un percorso di liberazione e di riconquista gli era stato spalancato così
davanti come su un’immaginaria mappa del tesoro.
Dal momento che l’anima ha da sempre eletto nel cranio la propria sede
privilegiata, anche lo scarmigliante testone incastonato sulle mura gli
aveva come acceso dentro, per una strana analogia, il fuoco sacro delle
origini.
Quel simulacro, quella parvenza incrostata dai secoli gli aveva, in effetti,
spalancato la più arcana porta dell’inconscio.
Ed era forte la tentazione del Mistero!
Quella magica testimonianza d’arte e di vita non si trovava forse saldamente
ancorata alle mura d’una chiesa romanica?
Chi avesse carpito il segreto disancoratosi dalla simbolica corrispondenza,
avrebbe conosciuto una diversa realtà d’affetti, un mondo meno
materialistico, le sorgenti forse d’una sommersa e arcana spiritualità.
A Carnáagh, fra le brume d’un betulleto, probabilmente nei pressi d’un masso
erratico, d’una pietra coppellata o, più semplicemente, d’una sorgente, il
potere occulto del “prana” sprigionatosi dal simulacro di Cernunnos, gli
avrebbe mostrato il cammino, intermediario con il Divino.
Fra i cumuli di pietre di Carnáagh, magari sommersi dall’humus dell’ampia
radura, presumibilmente una necropoli celtoligure, si sarebbe scatenata una
forza magnetica al massimo della sua potenza: il mitico Nemeton.
A Carnáagh, incontro con il signor Hesse
Sgrondava acqua da tutti i pori la montagna. Imboccato l’erto tratturo dei
monti, in un batter d’occhio raggiunse la pastura.
Scrostato l’AVE dal piccolo timpano d’una cappelletta, lo salutò MARIA,
mentre il rosa dilavato dell’intonaco, illeggibile l’umile affresco, si
spolverizzava all’interno della rugginosa inferriata. Si trovava poco più in
là di Sarín. Ai margini alti dell’erma radura un monolite mostrava alcune
coppelle: le profonde ferite del masso l’assembravano ad un cerebro
iscalpato.
Una verdognola amanita in compagnia d’altri fungacci gli sbarrò il passo. Un
cielo plumbeo e brumoso velava le pendici della “Sassèra” salendo
piovigginoso da Nolína e dalla Bedolasca. Il castagneto aveva ceduto
l’antico spazio alle “bèdre” e ai roveri.
Un latrare, infatti, di segugi nel fitto del betulleto preludeva ad una
“cascia sarvádega” d’altri tempi. Ad una facciata d’una casupola ancora
abitata, sul candido intonaco d’una meridiana lesse che “Ritorna con il sole
l’ombra smarrita, ma non l’età fiorita”. E i ricordi rimbalzarono alle ante
socchiuse d’un fienile del posto, in cui grazie ad un’intrepida Ildegarda
(non la santa erborista di Bingen) conobbe, una lontana primavera,
l’avventuroso sapore del prezzemolino selvatico.
Prati umidi lambivano prati secchi, una caciaia s’era allagata, una stalla
letteralmente scoperchiata. Là sotto, idealmente, riposavano ancora i sogni
delle povere generazioni rupestri.
Proseguì quella sua incursione nel mondo delle ombre e di lì a poco
raggiunse la Croce di Caslascio. Un fremere leggero di frasche, un
improvviso squagliarsi di foglie secche ruppe il silenzio del monte. Erano i
Soresín, gli allegri e burloni folletti del posto. Da tempi immemorabili
scorrazzavano beati per i prati e per i boschi preoccupando non poco il
dolce sonno degl’imberbi “patáia”.
Nei dintorni, infatti, vi sono numerose cavità scavate nella roccia, di
varie dimensioni e profondità, sparse su più speroni.
Si tratta, probabilmente, di un antico luogo di culto pagano.
Più avanti, sul promontorio antistante le verdastre “brughe” del monte,
pallido, lanternuto, un vecchio signore s’era piantato dinanzi alla cappella
votiva d’una famiglia patrizia. Gli scarponi chiodati e il sacco in spalla
rigurgitante di marroni, lo rivelavano come individuo d’un genere umano in
via d’estinzione.
- Wunderbar! – esclamò d’un tratto, e subito dopo, accortosi della presenza
dell’insubrico, gli porse una mano ossuta e delicata, come di medico, per
salutarlo. - Mi chiamo Hermann, ehm! Hermann Hesse…dalle vostre parti si
respira un’aria veramente salubre. Perfino nelle zone più remote poi, spunta
una cappelletta, un’edicola, una nicchia: proprio come in India, a Ceylon
per l’esattezza, o pensi un po’, proprio come nella lontana Cina!-
Italo percorse con piacere qualche centinaio di metri con il signor Hesse,
che gli confessò come l’umile spettacolo della cappella avesse suscitato in
lui la risonanza d’un ricordo, lo riportasse a una perduta infanzia
dell’anima, richiamasse alla memoria un remoto paradiso perduto, una beata
primitività, l’innocenza della vita religiosa.
Siccome il signor Hesse era diretto a Roveredo da un suo amico, prese
commiato da quello strano pellegrino un po’ francescano, un po’ bramino, e
decise di scendere dai quasi ottocento metri sul livello del mare dove si
trovava, perché stava facendosi notte. Allo scorgere di Bettagno, l’accolse
il raganellante verso d’una gazza.
Si trovò di fronte la contrada di Juan José Morosoli (1899 – 1957) prosatore
del silenzio.
Pensò che forse laggiù, nella perduta pampa uruguaya, con il nostro oriundo
era migrato anche il Grande Spirito dei Celti.
Svoltò l’angolo di quel grumo di casupole con un passo che gli parve più
leggero, quasi lievitato. Ora le montagne erano sparite sotto un condensato
di brume. Sul rettilineo dello Stradón da Betagn lo stavano raggiungendo le
nebbie, che con lunghe mani vaporose l’abbracciavano, lo circuivano in
silenzio. S’era scancellata definitivamente ogni prospettiva. Rumori
ovattati gli giungevano dal fondovalle. Cercò di sincronizzare i suoi passi
a quelli d’un ignoto pellegrino, forse il simulacro interiore d’una sua vita
precedente. Mentre dall’abbaglio dei muri si sforzava di ricordare chi se
n’era già andato, sentì che i suoi morti erano tutti lì, presenze confuse ma
certe. Inconvenienti del vivere sociale? Non occorreva che li distinguesse,
tutti avevano raggiunto il regno delle nebbie.
Vi si nascondevano, veleggiavano felici, piroettavano in quel nulla
apparente come monelli che si rincorrono per i campi. L’antica Necropoli
celtica se la portava dentro il cuore. Non amavano forse accompagnarsi a
reliquie, i pellegrini cristiani? Non se le portavano addosso, chi al collo,
chi alla cintola, chi in un minuscolo scrigno?
Tribù nomadi
La scombussolante armonia che l’aveva catturato il giorno precedente, di
primo mattino, sul ponte del Cassarate e che lo divideva dal regno delle
ombre, ora ne era pienamente cosciente, era quella d’un’orchestrina
balcanica, una specie di locale squinternata “bandella”.
Fra le sanguigne e le ocre del Báar, l’ampio pianoro di Pian Sotto, l’aprico
terrazzo costellato di monoliti cuppellati, astronomicamente orientati e
disposti a cerchio, gli apparve come un prato fiorito.
Sconcertante quel verde ancora primaverile, disperante nel quadro autunnale,
speranzosa l’antica riemersa radura!
Calavano nuovamente le ombre sulla pieve fra lo scampanare delle mandre e la
chiara squilla della sera.
L’umidore del castagneto gli tornava famigliare, brezzolate d’aria fresca
percorrevano furtive la valle. Conteso alla prorompente oscurità, si ravvivò
lo smeraldino d’un prato.
Le balconate sotto i tetti, i finestroni, le verande, le grandi aperture dei
rari fienili s’aprirono alla notte come gole cieche e profonde.
Italo si rammentò passati giovanili furori, libri mai scritti, amori
platonici, volumi intonsi e mai letti. E il presente racconto che non
riusciva mai ad ultimare. In queste lontane rimembranze annegava il suo
pensiero, e gli era dolce navigare in un mare d’indefinite illusioni.
Fra le nebbie del desiderio s’unì a una carovana di nomadi, forse di Auski o
di Leponzi.
Dal costone di Rompiago scorgeva le camane accese nella radura, a Pian Sotto
era tutto un brulicare di chiome al vento, di donne e di bambini. Lingue di
fuoco s’alzavano al cielo, altissime. S’udiva distintamente il fuoco
scoppiettare. Un sordo richiamo, come di bronzo percosso da legni zittì le
tribù attorno ai monoliti. L’eco degli sciamani rimbalzava sui pendii.Un
rito stava per avere inizio. I capi parlarono ai loro clan con voce solenne.
Poi si portarono enormi spiedi, le donne servirono idromele e la festa
incominciò.
Forse era l’ultimo banchetto prima della partenza, o forse si accoglieva
così, pacificamente, una nuova tribù di passaggio…
Fatto sta che le nebbie diradarono e Italo si ritrovò solo in quella notte
senza stelle. Disgraziatamente il destino gli aveva concesso di scoprire i
veli dell’antichità a bocconi, o meglio “a bütt e scarpüsc”. Spintonato da
un tempo ad energia alternata, la velocità dell’impresa lo faceva spesso
inciampare. Proprio come un cacciatore inesperto che segue le tracce
d’un’imprendibile e mitica preda.
Anche stavolta, così come gli era già capitato, rimpianse di non essere nato
nomade, che so, uno zingaro delle sperdute pianure balcaniche, un custode di
greggi in continuo movimento, il pastore errante della steppa.
Si sentiva dentro un’improvvisa ribellione, una voglia di andarsene, di
fuggire che gli ricordava i vani tentativi di fuga di sua mamma, povera
donna costretta tutto il santo giorno dietro i fornelli e le scope di
saggina o di “legn da cróos”. Si ricordò del nonno ambulante, della sua fuga
(per nulla verbale come quella della figlia) dai campi della Padania per
imparare un mestiere a Milano.Un mastro calzolaio che sapeva confezionare
eleganti calzature per ricche dame borghesi e scarpe su misura per piedi
disgraziati, andicappati, offesi insomma da madre natura. Un uomo che sapeva
trasformarsi in scarparo, venditore di refe e di bottoni, di “gugie” e di
broccati da un cantone all’altro dell’insubri terre pur di sfamare la sempre
numerosa prole.
Il nonno, mai veramente conosciuto, aveva lo spirito del magnano, lo stile
del magnano: non per nulla l’avevano soprannominato il “Camussèn”, che vale
a dire il furbo Camozzi.
La necessità che aguzza l’ingegno aveva dunque insegnato alle generazioni
dei Camussèn a cambiare le tenaglie, le pinze per i rebattini e i vari
martelli del calderaio e dello stagnino, in tenaglie ciabattine, in pinze
per occhielli e in martelli per il non men nobile corame vacchino.
In tutt’altre faccende affaccendato l’italo-elveta nipote: con un gran
daffare intorno ai libri dei morti, alle culture morte, ai pennini per il
china e alle scritture gotiche.
Un discendente inconcludente come i suoi racconti, arrabattato, arrapato,
con indosso la piva tardoceltica e il pastrano delle parole licenziose e
burlate ormai fuori per semper dal vacabolario penagino. Un autentico Mastro
dei Contaballe a tradimento, che pur di non sfigurare come libero pensatore,
s’era iscritto, in segreto, alla più dignitosa Corporazione degli Johannes
Gutenberg, o della carta stampigliata. Una vera frana di coprolalichismo
cacofonico e sgraziato!
Insubrico nipote che dalle trasudanti carte intesseva l’elogio della follìa
rurale: ecloghe capresche, idilli pievaschi e carmi guerreschi.
San Lucio e i santi
armati
Una rosea nuvoletta s’era intanto imbrigliata sul campaniletto della Maestà
di Bidogno. Incuriosito da quell’insolito evento, in poco tempo, Italo
raggiunse il Santuario.
Fu subito attratto da piccoli tremolanti bagliori all’interno: un candelotto
lasciato acceso, che so, forse un fuoco fatuo. S’avvicinò all’alta
inferriata per spiare l’origine della strana illuminazione, ma proprio
dinnanzi all’altare intravide una figura leggera e come sospesa nella
penombra. Indossava un vestitino “sperlusente” d’un verde smeraldino listato
d’argento: una seta preziosa che brillava al lume diafano d’un cero. Una
manina guantata fece schermo all’esile fiammella proteggendola dagli
spifferi del timpano. Lunghi capelli fluenti coprivano le spallucce alla
notturna apparizione, ma due zigomi giallastri, color creta, sembravano
volerle nascondere il viso. Due strane luci scaturivano, infatti, tremuli
come stelle, dalle nere orbite incavate degli occhi.
La piccola calzava soffici peduli e il suo incedere lento e nobilitato dall’
ombre, sembrava un continuo involarsi. Allora, cogliendo l’attimo di quella
magia spettrale, con una vocina che pareva di bambola, la piccola morta si
rivolse all’attenzione del cuore:
- Per me, poverella del Santo che accompagno a sicura sepoltura, tutto mi è
fosco, e la piccola luce che vedi non è che il vago ricordo della mia
terrena esistenza.
Italo sobbalzò, ma sapeva come a Bidogno, da molte generazioni, gli spettri
fossero di casa. Un’anima morta, dunque, gli aveva parlato con un’ineffabile
dolcezza, oltre i secoli e il crinale dei monti.
L’ampia “risciada” della scalinata che vista in prospettiva conferisce al
Santuario l’impressione di un’ascesa verso l’Infinito, la Via Crucis quasi
disperatamente aggrappata all’erta ripa, le splendide cappellette
baroccheggianti, quella notte di luna piena, pendula sull’alto delle Canne
d’Organo, davano alla naturale scenografia l’immagine d’una sovrumana
sofferenza: il mistico dolore dell’ascesa al Calvario di nostro Signore.
Dalla scricchiolante porticina della torre campanaria apparve allora
l’antica figura del Casaro. Coperto da un’ampia e scura mantellina, una
formaggia sottobraccio, la palma del martirio nella mano nodosa e ossuta,
seguì i passi vellutati della fedele pastorella. Una folta barba gli
ricopriva il viso bianco come la neve: San Lucio! Italo si buttò ginocchioni
sul freddo sasso, mentre si spalancava la porta della Maestà e un coro
d’angioli glorificava il Santo.
Italo, nella convulsione di tutte quelle emozioni, provò allora un grande
insolito appetito. Avrebbe preso a morsi i banchi tarlati della chiesa, ma
Lucio, nella sua infinita bontà, gli si fermò accanto, tolse il “falcín” dal
cinturone di cuoio e gli fece cadere un bel pezzo di formaggio dell’alpe fra
le mani tremanti.
Il nostro pellegrino, quel gesto lo ricordò sempre, per tutta la vita, come
un miracolo.
Spenti i bagliori della santificante visione, Italo proseguì nel suo cammino
come uno dei tanti san Rocco della regione.
Giunto al limitare della radura, però, la foresta aspra e selvaggia
l’attendeva al varco per l’iniziazione. Quando, improvvisamente, dal
fondovalle si vide avanzare, sorretto da braccia poderose, il Libro Santo.
Poi s’udì ben distinta la voce di san Matteo Evangelista, accompagnata da
quella orante dell’apostolo Bàrnaba.
Sorsero infine quattro apocalittiche figure di santi armati: Fermo, Giorgio,
Maurizio e Sebastiano! Salda e combattiva era la loro fede, chiara la
favella, caparbie le cornature.
I Santi patroni si erano affrettati a raggiungere il nostro dagli inerpicati
sentieri di Bidogno e di Corticiasca.
Dalla mitica foresta indoeuropea venne fuori uno stormo gracchiante di
corvi. Aruspici del rito d’iniziazione, si posarono sui rami secchi
d’un’immensa quercia annerita dalle folgori. Si suppone che in quel punto,
particolarmente segnato dal magnetismo di madre Terra, si scatenasse l’ira
del Cielo…
Il glorioso san Bàrnaba, che per la sua particolare bontà di cuore, soavità
di discorso (simile in ciò a quello dei Lapìn di Bidogno) affabilità di
tratto, unite ad un’ammirevole eleganza di forme e maestà di presenza ben
meritava di essere fra i discepoli di nostro Signore, lasciò la schiera
degli Eletti per rivolgersi direttamente ad Italo:
- Tu sai che al tempo della terribile carestia di Gerusalemme, colle
elemosine raccolte per mia cura nella città d’Antiochia, soccorsi i miei
fratelli in Cristo. Tu sai che, allorquando sul tramonto del quinto secolo
fu scoperto ancora intatto il mio povero corpo martoriato, l’imperatore
Zenone vi trovò depositato il Vangelo di Matteo. Ebbene, giura su questo
santo Libro che porterai a termine la tua missione, che non temerai le
ingiurie del tempo e che ti metterai d’impegno per ultimare il racconto che
stai scrivendo.
- Per la gloria del Dio che mi sta guardando dall’alto dei Cieli, lo giuro!
- Così rispose il nostro pellegrino ed entrò con passo deciso nel fitto
della foresta. Anzi, prima di scomparire fra le ombre dell’austera pineta,
tirò fuori dallo zaino la sua vecchia dolce tromba in sibemolle: lo
strumento che l’aveva fatto sognare nei tempi della trascorsa giovinezza.
Poi ci diede dentro con tutta la rinnovata foga di quel giorno solenne:
poche note di riscaldamento, alcuni squilli di ricarica, il passo trionfale
dell’Aida e via! In marcia verso i regni dell’Ignoto…
Incontro con Ezio
prima di giungere a Predarossa
Sulla cadenza dello stesso passo gli parve che qualcuno lo seguisse nel cupo
silenzio della pineta. Un passo d’ombra, una voce che scaturiva dall’humus
della terra e gli sussurrasse appena:
- Anche quest’autunno sono in tanti ad essersi iscritti al nostro Sindacato.
A queste parole, Italo sobbalzò. Ma la voce, dapprima ironica poi seriosa,
proseguì:
- Sì, quasi tutti celti…Celti di tutto il mondo, unitevi! Perché in un paese
che considera soltanto il profitto e la produttività, tutti i lavoratori
sono stranieri.
Improvvisamente tutto ricadde nel silenzio gravido delle vite trascorse.
Attraverso gl’ispidi tronchi, da uno scorcio di luce s’intravedeva,
raggrumato come in una casba, il nucleo di Corticiasca. La torre campanaria
di San Fermo, stavolta, svettava intrepida al Sol dell’Avvenire.
-Chi sei? Perché mi parli di Sindacato?
- Sono un socialista col cuore italiano, un pievatt con la tarígia del
magnano, un magütt emigrato a Züríigh: un nobile criviaschese ad un passo
dalla Dieta degli Elvezi.
- Ezio Canonica!
- Sì! In ombra: ombra de la tóa ombra, ma tíra innáanz! Ch’a tö sé ‘na testa
mata, fiöö d’on frá ch’a tö sé mai!
Quasi lusingato dal complimento, Italo si riebbe dal velato “stremizio” che
poco prima l’aveva colto di sorpresa.
Raggiunto Piandanazzo, un ometto canuto ma compunto uscì da una casupola con
un bouquet di rari fiori montani: il vecchio forestale, il compagno Moruzzi
di Cagiallo. Anche lui, infervorato dalla presenza dell’ Ezio inneggiò
all’Internazionale. Al piccolo coro delle Alpi s’unirono, dal fondovalle, le
voci dei santi armati. L’Utopia vivente di tutto il XX secolo colmava i loro
cuori d’un indicibile sentimento di Pace, di Giustizia. Anche Italo non si
era mai sentito tanto democratico e proletario.
Di lì a poco Ezio li lasciò: desiderava ritirarsi nella sua Carusio, con le
capre e tra la sua gente. E anche il buon Moruzzi tornò ai suoi libri di
botanica.
Nel frattempo, poco più avanti, l’alpe di Predarossa, con il suo magro
pascolo gli sembrò occupata dai bulldozer. Strano! Più la valle si spopolava
e più le fauci dentate del mostro cingolato finivano per offendere la
montagna. Meno s’aveva bisogno di strade e più si scavava nel vago
tentativo, forse, di parare i contraccolpi del rupestre dissanguamento
demografico.
Uno sparuto gruppo d’alternativi armato di forconi sbucò urlando da
un’improvvisata staccionata per maiali:
- Wir wollen in den Bergen finden was wir in der Stadt verloren haben!
Avevano perciò l’aria degl’inselvatichiti e degl’imboscati dell’ultima ora.
Erano i nostalgici della contestazione globale, i figli dei fiori scampati
alla programmata massificazione scientifica.
Libera come il vento, una poiana, “r’áigua” dei contadini di montagna si
librava nel cielo al di sopra di tutte le teste pidocchiose. Era ancora,
l’Insubria, un paese libero? Perduto in simili pensieri, un’altra voce lo
chiama da un terrazzo, gli pare l’ombra d’un vecchio amico d’infanzia. E i
ricordi riaffiorano subito come punte d’iceberg e affollano la mente,
premono come polle d’acqua sorgiva, come soffioni incandescenti.
Eravamo una tribù d’indiani attendati nel boschetto di San Maté, avevamo
imparato a costruire le dighe, i mitici “büsnón”, arginando le gelide acque
del Cassarate. Calavamo dalle irte ceppaie sulle pozze dai riflessi
verdastri per stanare le trote di fiume. E le trote ci sfuggivano dalle mani
con guizzi elettrizzanti.
Amavamo le emozioni forti, radicali. Quante domeniche ci davamo appuntamento
di primo mattino per una scorribanda di riconoscimento fra le cime, magari a
calpestar neve, gli ultimi “sgonfioni” di neve primaverile! La montagna era
la nostra passione, la nostra vera patria. Fra genti semplici e ardite vi
ritrovavamo i semi di un’antica solidarietà. Ci ritempravamo allora lassù
fra le sperdute vette: ci purificavamo nell’Assoluto. Purgavamo forse così
la fatica di vivere, la nostra irrefrenabile brama di Libertà.
Ma oggi quel fuoco sembra essersi spento, come un vecchio geiser; il paese
torna a guardarsi dentro, ma nel silenzio di chi non sa, di chi non ha mai
conosciuto il sapore, dolcissimo, delle ciliegie rubate, da ragazzini, nella
campagna di Sarone.
Il paese che volta la pagina della sua storia, che non sarà più quello di
prima.
La Garzirola
Dai crinali della Garzirola s’aprono ampie ferite che piagano la montagna.
Sembra che quest’oggi il cielo non sia mai stato così terso, e già un vento
più fresco preluda all’autunno.
Dove i pascoli erano verdi si scorgono ora terre che sembrano bruciate,
spuntoni di roccia riaffiorano dai brulli avvallamenti.
Il sole del tardo meriggio non vi staccava ombra alcuna, mentre nuvole
bianchicce parevano sospese come a quinte surreali.
La montagna mostra oggi tutta la profonda sofferenza dei millenni, che la
trasforma nel tempo e nello spazio. Una luce pallida ma decisa la mette a
nudo, ce la rivela nella sua veste più vera ma più cruda.
E’ trascorsa la stagione delle belle illusioni: come un vecchio “picapreda”
offre le stanche mani incallite. Dai fondali delle sue crepe tornano a galla
vene minerarie e cristalli preziosi, ma sotto il rannuvolato silenzio del
cielo che incupisce al calar del sole, il preistorico colle sussurra l’oblio
del vento di tramontana.
Innanzi all’ombra che avanza, gli dei della montagna sembrano volerci
svelare i misteri dell’anima. La bianca torre campanaria di san Barnaba
svetta nel cobalto minacciato dai presagi dell’incombente autunno. La luce
del tramonto pulsa fra cielo e terra, appare scompare riappare come in uno
scherzoso gioco della sera.
Il suono d’una sperduta avemaria percorre la bassa valle. Un senso di vuoto
ci assale; anche la Garzirola si dissolve nell’immateriale: forse è questa
sensazione di nulla che ci calerà un giorno nella dimensione dell’eterno.
E’ così prossima l’ora del crepuscolo, incombe su di noi come uno scoglio
irto d’incertezze e di paure. E’ questa l’ora più difficile e temuta: l’ora
della rivelazione e del passaggio.
Al di là delle nebbie che ci avvolgono nell’incertezza e nell’ignoto, oltre
l’ultima carraia, oltre la naturale barriera dei monti s’apre e si chiude
nel frattempo su di noi una frontiera interiore che ci sembra invalicabile.
Eppure le montagne ci accolgono fraternamente al risveglio, ci proteggono
dall’alto delle cime, ci suggeriscono pensieri verdi di speranza!
A ben guardare il confine inquieto e variabile segnato dall’incedere del
giorno e dal percorso degli astri stempera ineluttabilmente il confine fra
la luce e le tenebre, ma è dentro di noi che calano le ombre o s’illuminano
scintille.
Figli della luce, figliastri delle tenebre, prorompe la vita e il destino
degli umani.
I primi freddi ci mettono alla prova, il tempo ci consuma, siamo tutti
provati da strani eventi, da inerpicati percorsi interiori. Ciò nonostante
“la Luce venne nel mondo” e torna a rallegrarci di tanta ingratitudine!
Mentre l’autunno incede nei nostri sogni e ci sconvolge il sonno, l’anima
tenta la fuga,
il desiderio d’introversione si fa più forte, la tentazione “nichilista” ci
assedia, ci tende i suoi subdoli agguati. Come il riccio vorremmo
sprofondare in una sorta di letargo spirituale, come le fronde vorremmo
morire in un ultimo gesto di purificazione. Diveniamo così coscienti della
vanità del mondo, il senso delle cose ci appare in tutta la sua fragile
trasparenza, c’inghiotte la macchina del tempo e delle stagioni.
La navicella del nostro ingegno sembra aver perso la bussola, il nostro
passo il cammino da percorrere, la mente le tortuose vie della luce.
Disperiamo allora nel silenzio delle ombre, il cuore si ghiaccia, la lingua
ammutolisce. Pare che un’ineffabile AETERNITAS ci sovrasti per sempre. Più
nulla non ci soddisfa, più nulla ci attira, spenta la nostra volontà arranca
nel buio dell’indecisione, della precarietà quotidiana.
Ci sembra che altri si siano impossessati della nostra coscienza, della
libertà e ci tocchi ora fluttuare in un mare di pece e d’angoscia. A che
vale dunque guadagnare il mondo, se poi uno perde se stesso?
Su queste desolanti carraie d’ombra si rende necessario spezzare il cerchio,
le catene dell’inerzia. Riprendere il cammino al di fuori delle zone d’ombra
per superare le forme del male, lasciarsi trasformare dalla luce che
c’indica la meta. Ecco! Oltre quel colle gli da’ il benvenuto l’Italia: un
cuore nuovo per ritrovare la pace! Cittadino di un nuovo mondo, di quella
terra di confine, il suo cuore scoppia di gioia.
Mentre s’ inerpicava sull’ultimo tratto a pochi passi dalla cima, il cuore
in gola, l’occhio errabondo come di uno spallone che non ha più nulla da
perdere, si ricordò dei suoi vecchi, della sua infanzia, forse dei suoi anni
migliori.
In quei paesi del fondovalle, infatti, vi trovava abbarbicate le prime sue
radici: generazioni di HUMILITAS appena ravvivate da qualche ribelle
pennellata d’orgoglio contadino. In fondo il suo tentativo di fuga da quel
mondo interiore lo portava oggi a valicare i monti nella speranza un po’
utopica di un domani migliore.
Stava anche lui trasgredendo le leggi secolari di una forma genetica che lo
condannava alla gleba, alla negazione d’ogni utopia di riscatto.
No! Non si scordava le proprie origini e non le voleva neppure rinnegare.
Sapeva che il tradimento era impossibile o che gli sarebbe in ogni modo
costato un prezzo troppo elevato.
In quel lembo di terra gli sembrava di aver trascorso una vita d’illusioni,
nello sconcerto del circolo vizioso dei ritorni, confuso fra nostalgia e
passione, fra i sogni ad occhi aperti di un radicale cambiamento e l’amara
constatazione di un tempo circolare entro gli esigui spazi della valle.
Si ricordò il disincantato verdetto di un emigrante, che appena rientrato in
patria dopo anni d’America, si ritrovò nuovamente sotto il giogo delle
stesse famiglie regnanti di sessant’anni prima. Nella forma esteriore le
cose erano certo diverse, tanto che tornando indietro avrebbe forse potuto
tentare la fortuna nel suo paese, ma nella sostanza i problemi restavano,
perduravano quelli di un tempo.
Chiedeva ai più giovani, a quelli delle generazioni che non erano state
costrette alle vie degli oceani, di come s’erano saputi affrontare gli
annosi problemi della pieve, ma immancabilmente si sentiva rispondere che
tutto sommato le cose non erano poi migliorate di molto. Vuoi per una certa
cialtroneria dei politicanti, vuoi per la mancanza di mezzi o vuoi ancora
per un mare di dipendenze dal di fuori, il presente mostrava, come il dio
bifronte, di non sapersi staccare dal passato, mentre l’avvenire tornava a
ripetere gli errori, la precarietà sulle orme del passato.
Si disse che alla lunga, per un contorto concetto di democrazia, in quel
paese, l’intelligenza sarebbe stata umiliata, nello stesso modo che l’antico
ingegno dimorava improduttivo per il trionfo dei più furbi e dei mediocri.
L’antico tratturo dei mandriani stava uscendo dal betulleto per aprirsi ad
un ampio terrazzo. Gli umori sfatti della terra gli penetravano l’anima.
Lontano dalla gente, dall’umano consorzio si sentiva già meglio. La natura,
irremovibile nel suo continuo divenire gli dava la giusta misura del tempo,
relativizzava anche la sua piccola storia.
Ma chi l’aveva spinto in quella corsa dissennata? Chi gli andava suggerendo
quei folli pensieri inoculandogli quei sacri furori? Che cosa si aspettava
da quel suo gesto ai limiti del sensato?
Si ricordò la voglia, regolarmente repressa, che sorprendeva sua madre,
solitamente al calar della sera, una voglia di fuggire, di andarsene, di
lasciare tutto.
Arcadicamente riprese il cammino: tutto sommato si considerava un romantico,
un ultimo romantico impenitente.
Sulla cima, un vento furioso lo accolse senza troppe maniere, foriero forse
di nuove difficoltà, d’altri scogli da superare. Non si lasciò intimorire
tuttavia e proseguì il suo cammino con l’ardore di chi s’era risoluto di
sfidare l’ignoto.
Al momento di oltrepassare le ultime rocce inargentate della vetta, volse
istintivamente lo sguardo giù ai suoi monti, a quella giogaia verde e brulla
che gli si parava di fronte. Redòort! Un grumo di casupole che crollava a
poco a poco, una radura che rinsecchiva in un bosco come lo strame, la
mondicaglia senza più vita, spoglia dei poveri morti. Erano ricordi che
covavano sotto il fuoco, memorie lontane dei suoi vecchi, degli avi. In
quell’isola abbandonata dal tempo, intuiva i muri a secco che andavano a
tocchi, di cui non restava che una macchia, poca roba, e tetti con le piode
che cadevano giù in una roggia, un pozzo poco più in là, un noce, un nome
sulle cascine vuote.
Quando il nonno si decise di far fagotto e d’imbarcarsi per la Terra del
Fuoco, nella sperduta Patagonia si rendeva probabilmente conto dello scarso
valore dei beni che avrebbe forse lasciato in eredità all’immane fatica
della moglie. Con gli altri fratelli si era deciso a tagliare il cordone
ombelicale ben prima e ben più risolutamente di altri.
Eppure su quei monti avevano sudato sangue, li avevano percorsi
quotidianamente in lungo e in largo, vi avevano trascorso intere stagioni,
vi avevano seminato dei figli.
Se immaginava l’attaccamento istintivo e quasi selvaggio degli avi a quelle
terre scarne e ghiaiose, si sentiva dentro come un non so che di
sconvolgente pensando allo strappo interiore, alla lacerazione quasi fisica
che li spingeva ad emigrare in America.
Il coraggio si sposava all’arditezza, la disperazione alla speranza, la
cruda realtà quotidiana al mito, e si partiva.
La sua generazione invece, fortunata eccezione, fenomeno storico
probabilmente dovuto al fatto di essere usciti più o meno indenni dalla
Seconda Guerra Mondiale, non era stata costretta a “fá sü or balüsción”. Non
se ne rammaricava, ci mancherebbe! Ma il doversi adattare per amore o per
forza alle pretenziosità del benavere, alla difesa ad oltranza di presunti
privilegi nazionali, gli dava l’impressione di affogare giorno dopo giorno,
anno dopo anno nelle acque stagnanti e un poco putride di una decaduta
epopea costruita ad arte per gabbare gl’ignavi cittadini del pensiero
positivo.
Eternamente combattuto fra il rischio della fuga e le lusinghe del consenso,
si era sempre più isolato da quel mondo mal concepito e mal partorito. Non
aveva ceduto ai veleni del compromesso nazionale assurto ad ideologia, dagli
anni del Dopoguerra fino ad oggi era riuscito a scampare agl’intrallazzi, ai
patteggiamenti della carriera e del potere. La forza che gli permetteva di
sopravvivere “in patria” restava comunque quella dell’esclusione, di un
aristocratico quanto fragile distacco dagli eventi.
Disgustato dalla cupidigia degli “uomini di potere”, dal loro egoistico
accanimento attorno ai grassi privilegi della carriera, si era ribellato
agli obblighi della chiusura mentale eretta a sistema, all’omertà del quieto
vivere, all’adulazione dei portaborsa, dei leccapiedi e di ogni strisciante
dalla lingua tagliente e biforcuta.
Proprio come l’altro nonno, quello materno, che per fuggire all’umiliante
servizio dei latifondisti del Cremonese decise di scappare da casa a
quattordici anni.
Nonno Giuseppe si era rifugiato a Milano da un suo parente, e per la lunga
scarpinata gli era bastata una cipolla e un tozzo di pane. Nella capitale
lombarda aveva poi imparato l’arte di confezionare scarpe, ortopediche in
particolare.
Uomo d’onore, chiamato alle armi, si distinse al Fronte, fu decorato, nello
stesso tempo che la sua famiglia veniva decimata ad Acquanegra dal tifo e
dalla miseria.
Emigrato in Svizzera, a Bellinzona, s’ingegnò a vendere e costruire
calzature per gli Svizzeri, ma non volle mai confondersi ai figli d’Elvezia.
Morì a Cremona, al beneficio di due meritate pensioni, figlio d’Italia, non
però della lupa…
Il passaggio
Appena valicato il colle fu colpito dalla quantità di neve ghiacciata che
“ra müira” aveva accumulato a colpi rabbiosi di vento in una notte di
tormenta.
Quegli ammassi sgocciolanti e biancastri si erano come impigliati ai cespi
secchi del pascolo: rimasugli d’una nottata che preludeva all’inverno.
Sorpresero il giovane che non s’aspettava di dover calpestare così tanti
“sgonfioni” in un periodo in cui il sole, seppure tiepido e sbiadito riesce
ancora a far dimenticare le tracce della neve.
Una chiazza più grande sembrava riemergere da un avvallamento sottostante a
ridosso del bosco.
Aghi d’ abete si mischiavano in superficie a terriccio sassoso, ma fra le
pieghe di quel muraglione ghiacciato s’era come incastrato un drappo nero.
S’avvicinò incuriosito, e si rese conto ben presto che sotto quell’ampia
mantellina fuoriusciva un braccio.
Macabra scoperta, si trattava di un uomo, di un uomo senza più vita,
congelato.
Dal tipo di abbigliamento che indossava non sembrava essere un cacciatore;
d’altronde non aveva nessuna arma addosso, né cartucciera né “casciadora” di
sorta.
Poteva avere un’età fra i diciotto e i trent’anni, ma il volto appariva
sfigurato; il prolungato permanere all’aperto in una zona tanto impervia lo
rendeva irriconoscibile. I capelli d’un nero corvino, un corpo longilineo,
calzava un paio ormai logoro di scarpe da tennis.
A fianco del cadavere rinvenne un sacco da montagna, all’interno alcune
migliaia di lire e un mazzo di cinque chiavi: una di una cassaforte.
Dal profilo del viso, dagli indumenti non gli sembrava del posto (più tardi,
dagli esami effettuati in laboratorio, i patologi avrebbero potuto appurare
che il poveretto era morto assiderato). Forse s’era smarrito, forse a poche
centinaia di metri dalla cima non aveva più ritrovato il sentiero. Il
terreno in quel punto era, infatti, piuttosto impervio; colti dal nebbione
che a volte, a quelle altitudini, scende improvviso, anche i più esperti
faticano a ritrovarsi.
Concluse che doveva trattarsi di un clandestino che tentava di entrare
illegalmente in Svizzera. Uno dei tanti disperati disposti a tutto pur di
fuggire da regimi repressivi e affamatori: un uomo qualunque, un “nessuno”
che cercava di rifarsi una vita più dignitosa oltre quelle montagne. In
effetti, i primi accertamenti dei carabinieri non riscontrarono alcun
documento sul cadavere.
Stravolto da quella macabra scoperta, scese di corsa all’alpe per avvisare
le autorità, e gli sembrò quasi strano che ci potessero essere ancora
persone tanto ardite da sfidare quelle montagne. Rischiare la vita, morire
talvolta per un paese come il suo!
Gli sorse il dubbio se fosse veramente tutto perduto, se non vi fosse più
alcun valore cui ancora aggrapparsi, nessuna bandiera da sventolare. Lui,
infatti, non poteva considerarsi un profugo, né un fuoriuscito, e forse la
sua fuga prestava il fianco alla posa dell’idealista di comodo.
Si rassegnò senza darsi per vinto, si giudicò un autoestromesso altrove con
l’impegno però di riconquistare la perduta libertà. Perché era fuori dubbio
che il suo paese stava per cadere in una profonda crisi d’identità, di
decadenza interiore, una sorta d’eclissi antidemocratica. Nuove forme
d’integralismo economico asservivano la volontà politica; benché lontani
dall’intransigenza cesaro-papista di certi regimi ottocenteschi, che
riuscivano a negare perfino il diritto alla parola demonizzando il libero
pensiero, non era più convinto dell’assoluta purezza degl’ideali laici.
Avrebbe desiderato moralizzare l’azione pubblica e privata, purificare le
“buone” intenzioni del prossimo da ogni scoria, da ogni sbavatura
individualistica. Educare il popolo alla tolleranza, alla non violenza, alla
pace! Ecco un ideale da proporre al resto del mondo. In nome di un Dio
laico, dell’Intelligenza suprema e dell’Amore assoluto! In nome dell’Uomo.
S’addentrò nel bosco, vi si rifugiò come un Mosè Bertoni nella foresta
amazzonica. Anche lui alla ricerca di creature innocenti, selvatiche, sulle
orme del Buon Selvaggio di roussoniana memoria. All’ombra dell’abetaia si
sentì rinascere, stava intraprendendo una specie di terapia personale, una
catarsi naturalistica: la sua pacifica liberazione dalla sofferenza e dal
male.
Oltre la quieta solennità degli abeti l’attendeva ancora una nuova maturità.
Si ricordò delle parole della mamma, ormai anziana:
- Quando maturerai, figlio mio, quando? E la capirai che non vale proprio la
pena d’ingaglioffarti tanto per gli affari degli altri, della politica!
Dopo aver percorso un buon tratto di sentiero, che scendeva verso un
torrente, la frescura del luogo gli procurò una strana sonnolenza. Sentì un
improvviso bisogno di dormire, di chiudere gli occhi. Le emozioni del
viaggio, il dramma del fuggitivo, del cadavere ormai sfigurato lo avevano
sicuramente messo a dura prova. Raggiunse un capanno, che nel folto del
bosco serviva ai boscaioli per i loro lavori, si sdraiò sul tappeto erboso
dietro la tettoia di lamiera e s’abbandonò alle lusinghe di Morfeo.
I barbari e i Pelosi
Si ritrovò sotto la preda di Rompiago, accompagnato da una matrona di
Provenza e dal suo uomo. Aveva indosso una toga bianca listata di rosso sul
bordo, che sembrava quasi pesargli sulle spalle. Davanti, sul sentiero che
dall’alpe porta al bosco di roveri e che incrocia, oltre la valle, la
carraia dei monti, Hermès, il figlio maggiore gli stava parlando. Il rumore
assordante della roggia copriva la sua voce, ma dai gesti allarmati lo
supplicava di alzarsi, di ripartire. Intanto, da qualche parte della
Garzirola sentiamo tutti distintamente che stanno sopraggiungendo dei
cavalli, un branco di cavalli al galoppo. Ne rimbomba il terreno soffice e
schiumoso.
Scendono infatti dal San Luguzzone balzelloni e sanno di poter profittare
delle nostre sagre. Bisogna vederli! Barbacce incolte, baffoni di sugna,
nasoni “accanappiati”, occhiacci guerci, come bande di porci selvatici dalle
brache unte e bisunte.
Avevano cominciato col far man bassa negli orti, che c’era da aspettarselo,
quegli strani ceffi d’intorno, servi, manovali, scarampane venuti in valle a
fare ogni sorta di lavoraccio, ché i nostri le mani non volevano più
sporcarsele.
Erano poi arrivati i soldatacci avvinati dell’avamposto di Tesserario, e il
Prefetto aveva lasciato fare non avendo trovato di meglio.
Hermès piglia il padre per un braccio, lo scuote dal torpore. Di lì a poco
tutti sono di nuovo in viaggio, attraversano un pericolante ponticello di
legno, ma sentono che arrivano anche loro e mandano urli dietro i loro
cavalli, sollevano nugoli di polvere, versacci come di lupi e di orsi. Via!
Che qui c’è solo da pigliar botte...
Tre barbe rossicce sembrano svegliarlo, toglierlo dall’incubo. Si leva di
scatto in piedi con la testa che pare di piombo.
S’è fatto tardi, anzi notte. Si alza una luna in cielo d’enormi proporzioni.
E’ così vicina che potrebbe quasi toccarla: una bianca formaggia senza sale.
Ancora poche centinaia di metri e giungerà a Cavargna. E’ appena uscito dal
bosco, s’incammina sulla “pianca” dei primi prati del villaggio, il sentiero
imbocca una leggera scarpata, s’incunea fra i cespi… ed è nuovamente
sorpreso da strani rumori che echeggiano su in alto, ai margini del
rovereto. Gli sembra che dagli spuntoni di roccia cadano dei massi. Massi
appallottolati, che precipitano quasi allegramente dalla montagna, con
leggero strepito.
Si nasconde dietro un gigantesco sorbo dalle bacche simili a grappoli d’uva,
zitto! Dalle zone d’ombra a ridosso dei roveri, infatti, fuoriescono dei
sassi come palle di cannone.
Una gli passa accanto, sibilando come la vipera cornuta che ti sorprende più
nell’immaginazione che non nella realtà. Non gli par vero, è una bomba
avvoltolata da forme umanoidi, molto pelose.
Altri proiettili di quel calibro continuano a precipitare su Cavargna,
accompagnati da risa e schiamazzi. Si ricorda che don Federico, qualche anno
prima, gli aveva parlato di quelle presenze in valle: mostriciattoli burloni
frutto dell’immaginario popolare; nanerottoli che non necessitavano di certo
della sua benedizione o di particolari esorcismi. Comparivano di tanto in
tanto, scherzosi e innocui come sempre. Il dottor Grandi li aveva perfino
fotografati in una notte di bufera, mandando poi tutta la documentazione
agli specialisti della Regione.
I ricercatori del Politecnico di Milano li avevano catalogati come piccole
creature dell’Insubria, pelose, leggermente gobbe e dalla fonazione stridula
e infantile.
Immerso in simili pensieri, un “Pelúus” lo colpisce improvvisamente e lo
butta a terra.
Che botta! Spaventatissimo, colto da terrore panico, urla come un
forsennato.
Il Peloso gli si avvicina cautamente, gli tappa gentilmente la bocca, lo
accarezza con le sue protuberanze villose…si assicura che l’urlatore dalle
fattezze umane non sia uno scimmione fuggito dal serraglio e comincia a
cantare.
Canta in uno strano dialetto, probabilmente arcaico, affascinante! Le
modulazioni della voce lo incantano come alla Scala, anzi ancora di più, n’è
incantato come un serpente a sonagli.
Ma il Peloso Insubrico non scherza, la sua romanza ha tutta l’aria di essere
un’invettiva. Si lamenta delle piogge acide, della moria di pesci nei
laghetti di alta montagna, della scomparsa di specie rare nel suo mondo
vegetale e animale.
Sputa per terra e impreca contro le onde elettromagnetiche che inquinano
ogni dove.
Si avvicina minaccioso all’interlocutore stordito e stregato dai suoi
gorgheggi orobici puntandogli contro un artiglio peloso. Gli va mostrando
l’erba radioattiva, che sotto la pressione dei polpastrelli diventa
fosforescente, non ne può proprio più delle scelleratezze dell’homo sapiens
sapiens.
Ricama il suo dire di preziosi latinismi, declama con una foga che convince
anche i sassi, un vero esempio d’arte oratoria dell’antichità! Quel
mostriciattolo villoso e gobbo conosce le piante, le erbe, i roditori, i
migranti, gli scarabei e i ragni meglio di Linneo e d’Aristotile. Il tutto
condito in un latino curiale, ingentilito da ritmi trobadorici, da ellenici
e arzigogolanti passi di danza.
Poi, d’incanto, come per magia il Pelúus scompare sghignazzando nella notte
in un fragore di pietraia.
Come Mosè di fronte al Roveto Ardente, Italo crolla al suolo tramortito.
Passerà l’intera notte al chiaror della Luna sognando dell’allegro ma non
troppo popolo dei Pelosi.
La “cascia sarvádega”
e i segugi rossocrociati
Si riebbe da quell’incredibile nottata svegliato di soprassalto dal cupo
suono martellante e legnoso dei tarlacchi. Le raganelle del Venerdì Santo
gli rimbombavano nel cervello come un oscuro presagio.
Si appoggiò al sorbo con viso inumidito dalla rugiada, gli abiti fradici,
gli occhi ancora assonnati. Da quella postazione gli parve scorgere fra le
nebbie del primo mattino come due ombre arrancanti le pendici della
Garzirola. Ebbe paura. Un nitrito di cavalli gli rispose dal fitto grigiore.
Poi più nulla. Poi uno scalpitare di zoccoli nel vuoto. Si strinse la testa
dolorante fra le mani, gli occhi si appannavano, le gambe cedevano. Lo
scalpitio si fece più ferrato, impaziente. Gli parve che i cavalli
puntassero dritti verso l’altura della sua postazione. D’un tratto un
cavallo nero e fumante gli si parò davanti…Lo cavalcava un fantino
scapigliato, stivaletti di cuoio, una barbetta rossiccia, una guardatura
violenta e affumicata. Di lì a poco sopraggiunse un secondo cavaliere che
dall’aspetto aveva tutta l’aria di essere il fratello della barbetta
rossiccia.
Sembravano usciti da una leggenda del medioevo: forse due penitenti della
“Cascia Sarvádega” dannati a cavalcare quelle aspre montagne per un numero
imprecisato di anni, di secoli. Scorribandavano dunque nei luoghi poco
frequentati dalle anime dei vivi. Fra lo strepito e i lamenti del Purgatorio
si tormentavano anch’essi alla ricerca furibonda d’un po’ di pace.
Freddo come una statua, imbambolato, gli occhi sbarrati, Italo invocò in
cuor suo i Santi Patroni e la Madonna del Buon Consiglio.
I due malviventi erano infatti armati di tutto punto. Uno mise mano ad un
pugnale dal manico d’un oro arabescato, l’altro impugnò uno spadone da
metter paura al solo vederlo.
- Che volete da me? – chiese con un flebile scampolo di voce – Chi, chi
siete?
- Siamo anime in pena – risposero in coro. Io sono Azzone e questi è
Arnolfo, mio fratello. Molto tempo fa, correva l’anno 1078 di nostro
Signore, noi due sciagurati osammo pugnalare a morte don Fedele, sacerdote
di Santo Stefano a Tesserario.
- Siete figli di Comitissa allora, la feudataria di legge longobarda?
- Sì! Banditi dal consorzio umano, dannati da quello celeste.
- Vostra madre, nel suo testamento lasciò alla Chiesa tutti i suoi terreni a
Sala e Bigorio, compresi i tributi in cereali e formaggi…
- …e i diritti d’alpe nella Criviasca. Abbi misericordia di noi, abbi
misericordia! Che Dio ci perdoni l’infinita offesa, che la plebe possa
prosperare per i secoli a venire! Non curarti di noi, Italo, ma guarda e
passa!
Un nuovo sole fece capolino dai monti, un sole da spaccare i sassi e da
mettere in fuga tutte le Cacce Selvatiche del mondo. Le ombre dei due
assassini si scompigliarono dapprima come nebbie al vento, poi si dissolsero
nella vastità del cielo.
Il nostro si riebbe nuovamente da quell’orribile visione e si decise a
scendere…al villaggio.
Giunto alle prime case di Cavargna, tutto indolenzito, provato da quel suo
tentativo di fuga, che s’era ormai confrontata con l’ignoto e i misteri
della Garzirola, si sedette un attimo sul bordo di granito d’una vecchia
fontana.
Il sole era ormai alto, ma si scorgevano ancora ampie zone d’ombra dietro le
case e i fienili. Ad un certo punto tuttavia gli parve d’intravedere un cane
fuoriuscire latrando da un portone, poi un altro, un altro ancora. Aguzzò la
vista, si sforzò di capire, di dare un significato a quel viavai di segugi e
di bracchi: erano proprio cani, e indaffaratissimi. Uno di questi lo stava
raggiungendo sullo spiazzo della fontana, trafelato, la lingua penzoloni. La
povera bestia si portava attorno un insolito peso, uno strano carico, una
bastina carica di merci, sicuramente, pensò, destinati al contrabbando.
Si trattava, in effetti, d’un cane contrabbandiere, che lasciato senza cibo
per diversi giorni, tornato libero, carico però come un mulo, si slanciava
spontaneamente verso i luoghi dove avrebbe trovato cibo in abbondanza.
L’ingegnosissimo basto canino era fissato ad una specie d’armatura di filo
di ferro, che impediva al carico di rovesciarsi, o di scendere tra le zampe
posteriori della bestiola rendendo così difficile la sua marcia.
A quell’ora mattutina i quattrozampati contrabbandieri risalivano le pendici
della montagna a decine, simili a truppe d’assalto mercenarie alla conquista
d’ossi spolpati, di qualche polmone di vitella, di un intero mastello di
frattaglie.
Gli scivolavano via sotto il naso come ombre viaggianti per i pascoli, alla
volta dei due candidi ossi incrociati dell’elvetica bandiera.
Già s’udiva il rimbombo, lontano, della fucileria finanziera, quando due di
quei quadrupedi addestrati al contrabbando si fermarono a riprendere fiato
nei pressi dell’acqua. Un vecchio setter inglese tutto spelacchiato levò il
muso verso Italo e:
- Mòla ‘n átim ra bricòla! Quátet giü sota ra tépa, macáco! S’a tö vö mia
finí in dra bögia…e tira fòra ra grapa!
Sbigottito, sconcertato Italo non credeva alle sue…orecchie, ma da buon
bipede eseguì gli ordini stravaccando bocconi sul prato.
- Dághen ‘na féta, svizzarott in vacanza, ch’a ta sé ‘l sòlit ciucatún! A te
mia trincáat assé quand ta sévat in servizzi?
Dai rapporti della Finanza, si sa che cani contrabbandieri erano allevati
nel Comasco in cucce dove abbondava il cibo. Condotti poi in Svizzera
venivano rinchiusi in appositi canili e lasciati senza cibo per diversi
giorni. Ciò nonostante i cani di Cavargna sembravano dover compiere il
tragitto inverso, anzi di prediligere particolarmente lunghe bevute in
compagnia.
Si trattava, infatti, di segugi prevalentemente rossocrociati, che per via
della metempsicosi, o trasmigrazione dell’anima erano stati condannati
nell’aldilà a scontare quest’insolita pena purgatoria.
Di conseguenza, le guardie che s’erano comportate in modo eccessivamente
crudele nei confronti degli uomini o degli animali, passavano qualche
annetto da cane “sfrosatore”.
Dallo straordinario dialogo canino, l’unico testimone umano presente seppe
poi che quella mattina era già stato abbattuto un insopportabile pastore
tedesco, che evidentemente parlava male la lingua di Dante, nonché uno
spinone bergamasco, il quale nella vita precedente aveva ideato una speciale
“rete”, che stesa lungo la linea di confine e munita di campanelli d’allarme
segnalava il passaggio non solo dei cani, ma anche delle persone.
La sempre mitica
Cavargna
Lasciata la cagnara di chi, per la divina legge del contrappasso, scontava
in alta quota le sue pene, Italo, più morto che vivo, bussò alla porta d’un
Cavargnone.
Venne ad aprirgli un omone barbuto e seminudo armato d’un nodoso randello.
Lo invitò non senza una certa qual affabilità a sedersi attorno alla
gigantesca tavola del cucinone. Senza fiatare gli scodellò un piatto di
polenta gialla e fumante, gli porse una ciotola di latte e gli si parò
dinnanzi scrutandolo come fosse un marziano.
Nonostante la statura e le maniere piuttosto brusche e sbrigative, il
Selvaggio (poiché non poteva essere definito altrimenti) si preoccupò subito
dello stato di salute del suo ospite. Con una specie di versaccio urlò alla
sua donna, una matrona dalle lunghe trecce nere, di preparare un bagno caldo
allo sventurato pellegrino.
Nel frattempo si tolse da sotto la cintola un falcettone da metter paura
anche ai santi e come se stesse squartando un bue tagliò una fettona di pane
di segale da una pagnotta grande come una zucca. Poi, con immenso strepito
di zoccole, si recò in cantina portando in tavola un’intera formaggia
dell’alpe. Ottimo il latte, buona la polenta, squisito il formaggio!
Nell’acqua calda del mastellone, Italo si crogiolò come una lucertola al
sole, accarezzato soprattutto dalle manone delicatissime di un’altra donna
sopraggiunta nel frattempo nella dimora del buon selvaggio.
Il finestrone del bagno dava sulla piazza del villaggio. Su un pancone
intravedeva tre vegliardi dalla bianche barbe incolte, attorno a un pozzo
due bellissime selvagge con le secchie stracolme d’acqua, frotte di bambini
giocondi e paffuti sbocconcellavano fettone di torta di pane rincorrendosi
di tanto in tanto come per scherzo.
Sembravano tutti membri di una stessa grande famiglia, e forse si potevano
ancora considerare una tribù innocente e felice.
Accompagnato dall’amica del selvaggio uscì sullo spiazzo ad asciugarsi i
capelli, l’aria s’era fatta più accogliente e come pervasa da un insolito
calore umano.
Ad una certa ora del mattino, un drappello di giganti rientrò cantando dai
terrazzi sovrastanti il villaggio. I bambini corsero loro incontro
abbracciandoli e facendosi coccolare per un buon spazio di tempo. Poi
uscirono le matrone dai portoni e anche lì carezze ed abbracci a non finire.
Insomma, sembrava che tutti festeggiassero il ritorno da chissà quale eroica
impresa!
- Ci chiamano “comunisti”, perché ci vogliamo bene! – spiegò
l’accompagnatrice al nostro amico – Difatti noi mettiamo tutto in comune,
quel ch’è mio è tuo e ci aiutiamo sempre in caso di bisogno.
- Come “tutto” in comune? – chiese l’ospite.
- Gli alpeggi, le sorgenti, le carraie, i boschi e le selve e…
- E poi ancora?
- Le nostre case non hanno catenacci, sono sempre aperte. Qui a Cavargna,
per un verso o per un altro, siamo un po’ tutti imparentati. Capito?
- Mah!
- Pochi mah! Straniero, a noi fa molto più comodo così, e lo stesso valga
per l’educazione della nostra figliolanza. Se un bambino è intelligente e
istruito, ciò servirà a tutti; se uno è forte e robusto, pure, e così via.
S’è mai sentito dire che l’egoismo porti frutto?
- Vero! Ma neppure l’annullamento dell’individuo.
- Ma quale individuo, se siamo stati creati per godere e stare in compagnia!
Il valore di ciascuno di noi va rapportato alla capacità di far qualcosa di
utile al prossimo.
Il sole era alto nel cielo, dalla torre del tempio suonarono dodici
rintocchi di campana. Era l’ora che volgeva al desìo…
Visto e considerato che Italo insisteva nel voler porre troppe domande senza
sostanza, la bella selvaggia lo prese amorosamente sottobraccio e lo portò
all’ombra d’un boschetto, proprio là dove il dolce declivio del prato
ritemprò l’ospite del sapore spensierato e giovanile della “brüga”.
Un intenso profumo di vendemmia solleticò le nari del recente beatificato.
Un’impalpabile nebbiolina pervadeva ogni cosa, un’ineffabile foschia che
andava pennellando le selve d’autunnali velature.
La Garzirola, sacra, rannuvolata nei suoi misteri sembrava scarnificarsi
svestendosi d’illusioni. Ruppe il silenzio dei pensieri l’ala pellegrina
d’un falco. E nel mentre tutto si scancellava, nella mente del gaudente
sopraggiunse inequivocabilmente il sonno.
Il Professor
Spallanzani
Si risvegliò il giorno dopo sul fondo di una galleria scavata dai minatori
del posto.
Una flebile luce, simile a quella che pocanzi aveva rianimato dal di dentro
la montagna incantata, lo attirò come in un sogno.
Un’ombra volteggiò sulle umide pareti del cunicolo, la “crapapelada” del
professor Spallanzani.
- Vede, declamò come se si credesse ancora in cattedra, codesto è minerale
ferroso!
- Lei? Professore, dopo tanti anni…, l’interruppe il neoprecipitato
dall’afrodisiaca alcova.
- Non divaghi, giovinotto, ché ben la rammento sui banchi tarlati della
Facoltà!
Lazzaro Spallanzani, sacerdote dal multiforme e acuto ingegno fu, infatti,
professore di Scienze Naturali all’Università di Pavia, dove il nostro aveva
per breve tempo studiato. Accarezzando la lucida epidermide del cerebro, il
Chiarissimo, riprese con rinnovata foga:
- Voglia Iddio che il mio aiuto la possa favorire! Sto cercando da anni un
tesoro d’inestimabile valore, e se lei avrà la bontà di aiutarmi, le do la
mia parola che gliene concederò la giusta metà.
Si misero alacremente alla ricerca e di lì a poco Italo rinvenne, all’ombra
di un’urna cineraria, un buggerato paiolo di rame.
Alla luce della lampada mineraria tolse il terriccio che lo ricopriva e,
meraviglia delle meraviglie! Invece di polenta raggrumata vi trovò manciate
di monete d’oro.
- E bravo il mio studente! - esultò lo Spallanzani – Vede, si dice che il
tesoro appartenesse a una matrona romana, la quale negli oscuri tempi della
decadenza s’era rifugiata quassù fra queste montagne.
- Come l’ha saputo, professore?
- Facendo parlare i toponimi: non ci troviamo forse nella Val Caldera? E
poi, una lapide negli scantinati dell’Università parlava di una certa
Lucilla Gallica Cavagnonam…
Ma come mai, si chiese, per sua fortuna d’altronde, era venuto a trovarsi in
quel posto, in simili frangenti? No! Non si trattava del solito scherzo da
prete, o meglio sacerdotale, bensì di una burla dei magnani, che
approfittando del profondissimo suo sonno e della profondissima quiete lo
avevano menato via su una carriola fin dentro le viscere di quel mondo
sotterraneo.
Glielo rivelò la Dottoressa Maria Corti, istrionica e affascinante come
sempre, che con lo Spellanzani era salita ai monti alla ricerca
dell’edizione principe di un’opera critica sullo stile comico magnanesco di
un discepolo locale di Michail Bachtin.
Il ritrovamento dell’opera avrebbe mandato in visibilio l’intera Scuola
Filologica pavese, dall’Isella allo Stella sarebbero corsi fiumi
d’inchiostro, ma a San Bartolomeo si esibiva la Filarmonica. Sul piazzale
antistante la chiesa, le note toccanti del “Va Pensiero” commuovevano gli
astanti. Anche Italo si era finalmente convinto di andare dove lo portava il
cuore.
L’accolse ancora nebbia sotto i portici del borgo. I Camozzi aspettavano il
Pin. Avrebbe estratto un coltellaccio dal sacco, il norcino, e il porco
probabilmente avrebbe intuito l’orrida fine.
Ficcando il muso dove gli capitava, s’infognava nella sua ultima colluvie,
bramoso avrebbe trangugiato ossi, ghiande, mele marce. Sotto la pellaccia,
bianchissima, il macellaio, gl’indovinava due bei grassi prosciutti. Brutto
ceffo il Pin! Senza chioma né baffi, gli occhiacci strabici mentre si
preparava all’opra:
- Finirlo con la mazza, sgozzarlo già pendulo all’uncino?
Sulla “risciada”, l’acciottolato del vicolo, quel giorno, nei quartieri
bassi di San Bartolomeo, con l’ali dorate del cigno di Busseto pisciava giù,
rossastro, il filo di sangue del porcello atrocemente scannato.
Comitissa e la
progenie dei Camozzi
Uscito sui prati per pigliarsi una boccata d’aria fresca, si trovò di lì a
poco in un bosco di castagni e di faggi; di fronte alla “quadrelèra”, la
vecchia fabbrica di mattoni, proseguì superando gli aspri valloncelli che
dal monte Criselli scendono per gettarsi nel Cuccio. La valle si faceva ora
stretta e incassata.
Dai ruderi d’un’osteria lo salutò un’indiavolata monfrina, che il verticale,
sorta di pianola meccanica caricata qui da mano spettrale, offriva a tutti
gli spericolati impenitenti del ballo.
Da un’impervia altura vegliava comunque su di lui la chiesetta di
Sant’Ambrogio, così come nei bei tempi andati aveva vegliato sull’anima di
gagliardi contadinotti in odore di scomunica.
Passata la valle del Curbatt, raggiunse la Torre al di sopra di Ponte Dovia.
Nei pressi di una sorgente, che ha fama popolare di possedere proprietà
salvifiche, s’accorse ben presto che dalle feritoie qualcuno lo stava
spiando.
La casa torre, eretta a protezione della vicina percorrenza e avamposto
d’avvistamento, accoglieva un corpo di guardia, che armato fino ai denti non
tardò a farsi vivo. Le alabarde poi avrebbero fatto il resto al fine di
riscuotere il dazio ducale.
Nello stesso momento un vecchio servo uscì correndo dalla torre per dirgli
che era atteso già da tempo:
- Signora, il nobile avogadro Italo Adalberto De’Quadri!
- Mio buon avogadro! – esclamò la nobildonna dallo scranno legnoso della sua
portantina (la poveretta aveva le dita dei piedi palmate come un’anitra) -
Siete qui con le pratiche di Rèdde, vero? Come saprete, mi sono rifugiata
fra questi monti severi e selvaggi per sfuggire il disonore del mio casato.
Dopo l’imperdonabile crimine perpetrato in Santo Stefano di Criviasca, la
mia vita s’è fatta insopportabile: disperato dolore simile a queste alture
scoscese e brulle che mi cingono tutt’intorno. L’orridezza del luogo,
tuttavia, si fa talvolta meno aspra, i monti terminanti in acute piramidi,
assumono qua e là forme tondeggianti e s’ammantano di selve e pascoli.
Azzone e Arnolfo, i miei sciagurati figli, sono stati banditi per l’eternità
da ogni umano consesso, ma non abbiate a temere, caro avogadro, per la mia
salvezza! Ho desiderio di finire i miei giorni nel monastero d’Infigina, in
Brianza.
- Quello da Voi fondato in espiazione a tanto male commesso? – l’interruppe
Italo.
- Sì! Fra preghiere e digiuni, accompagnata ai Cluniacensi per la vita
eterna.
Ciò detto, Domina Comitissa De’Castella, nobildonna milanese si ritirò in
silenzio nelle sue spoglie stanze.
La progenie dei Camozzi, che nel Cremonese aveva dato i natali alla mamma di
Italo, l’accolse in paese come un figlio. Il magnano, “regióor” e reggitore
della famiglia, la “tarigia” degli attrezzi in spalla, stava per ripartire
alla volta del Mendrisiotto. Accompagnato dal magnanino, uno dei suoi
figlioli, avrebbe valicato la Garzirola la sera stessa.
Ma la Margheritascia, proprio quel giorno suscitava lampi e tuoni sulla
vetta. Percuotendo le prede delle fontane con la lunga scopa di betulla,
scatenava acquazzoni e temporali a non finire. Una strega, che se vuole, può
trasformarsi in un gatto, in una serpe o in un cagnaccio.
Nel frattempo ebbe tempo e modo di raccontare all’ospite di una giovanile
sua prodezza contro la Varispa. Quando, su un’altura a pochi passi da Colla,
fu sorpreso nello scorgere, alle pendici della montagna, una ceppaia in
fiamme.
Fatto curioso, piovigginava, eppure dal legno si sprigionava un fuoco
rabbioso. S’avvicinò estraendo il falcetto e si scagliò sulle nodose
protuberanze, sui polloni incandescenti. Ne fuoriuscì un fiotto di sangue
denso e nerastro: il sangue della Varispa. Un’altra strega attaccabrighe,
che amava dimenarsi nuda come un verme al “barlotto” (il sabba locale) di
Sonvico.
Scese repentina la notte. Giuseppe Giovanni Stefano Camozzi, patriarca della
schiatta magnanesca, gli offrì una camera a pianterreno. Siccome dava sul
bosco, a mezzanotte in punto, venne a parlargli l”Orpa”, una vecchia volpe
dal pelo arruffato e dalla lingua piuttosto loquace.
Fuori, fra nebbie tanto fitte che si sarebbero potute tagliare con il
coltello della polenta, una sagoma umana arrancava sulla carraia illuminata
dai bagliori della Scienza. Era monsieur Pennard, un nostalgico discepolo di
Jean-Jacques Rousseau. Sconfinato nelle terre felici dei “bon Sauvage”,
anche lui alla ricerca del Paradiso perduto, s’era, con gli anni,
probabilmente più affezionato alle serpi e agli “scorzoni” che non agli
uomini. Solo ai ragazzi regalava qualche lente d’ingrandimento a
testimonianza della sua fede nelle scienze naturali. Per il resto girovagava
solitario per i monti alla caccia di vipere e aspidi, che con abile gesto
insaccava nella sua bricolla di telo. Avrebbero ripopolato l’intera
Romandia, sua patria natale, affermava con determinazione orologiaia,
rinvigorendo le specie in “via di disparizione” di un più velenoso sangue
latino.
Lo seguiva, a debita distanza, un Orso ballerino, che contento come una
pasqua festeggiava il ritorno della sua nobile schiatta sugli spuntoni di
roccia, negli stessi anfratti che l’avevano fatto secco sul finire
dell’Ottocento (ultimo esemplare della sua specie) con una fatale
schioppettata repubblicana. Un Lupo trionfante e due Linci regali
accompagnavano l’insolita suite di “revenant”, Lontre e Beccofrusoni, Agoni
volanti e una timidissima Cicogna delle Fiandre.
Infine, vestito della festa, il povero Tilio comparve nella sfilata
imbracciando uno sfavillante “accordéon” dal quale tirava fuori con piglio e
bravura un allegro motivo francese. “Sous les ponts de Paris” gli rimbombò
in testa come un colpo di cannone.
Il catafalco e i
Bràgiola
Saltò giù letteralmente dal pagliericcio. Di primo mattino, l’intenso blu
del cielo contrastava con gli ammassi di nuvole rosa. La montagna,
nell’ombra, taceva. Un’aria umidiccia gli andava dentro le ossa. Mezzo
assonnato si rifugiò sotto l’immensa cappa del camino, dove bruciava un
enorme ciocco di pascoliana memoria.
La Giüdìta e la Ninìta, premurose come sempre, gli porsero un tazzone di
caffè nero, poi scomparvero dalla circolazione. Italo trampolava,
trampillava impaziente per il cucinone. Chiamò la “regiora”, la reggitrice
della casa, ma dell’ava neanche l’ombra.
Volle salire ai piani superiori per ringraziare la signora Giuseppina, bussò
ad una porticina dall’arco ribassato, la sospinse leggermente, sbirciò
appena in uno stanzino piuttosto impiccato del sottotetto.
Sul fondo, sotto la smorta luce dell’abbaino, scorse un catafalco laccato di
nero. Pensò ad un deposito di fortuna della parrocchia, ma si accorse che
sul catafalco c’era steso un cadavere. A fianco, contro il muro, una barella
pure nera con su scarabocchiate teste da morto e tibie in croce. Da un breve
pertugio filtrava un’ariaccia gelida. Il poveretto si sarebbe almeno
conservato in uno stato di perdurante ibernazione, ragione per cui non
emanava odori sgradevoli.
Seppe più tardi che spesso le strade impraticabili rendevano impossibile il
trasporto delle salme. Nell’attesa di tempi migliori si portava allora il
cadavere sul solaio, dove vi rimaneva congelato fino al giorno in cui era
possibile trasportarlo in chiesa.
Finalmente si potevano celebrare le esequie e dare al defunto una degna
sepoltura.
Nella sua fuga interiore oltre il tempo e la storia, a questo punto Italo fu
scosso dall’eco di urla, da uno sbraitare animalesco che risaliva dal verde
bottiglia del fondovalle. Uno schiamazzo che proveniva dal roccione che
sovrasta il sentiero di Tavagnago.
Ritornò allora sul sentiero di Ponte Dovia, quando forti colpi di tosse fra
le fronde, peti sonori, loffi e scorregge si alternarono in un bombardamento
tale da sconcertare anche il più inveterato guardiano di porci. Dall’alto di
un frastaglione, un’immonda creatura lo fissava con occhi lascivi e
voluttuosi. Era un Bràgiola che canticchiava in rungìn:
- In da cròspa agh tedza un örtegh mognànte coi sgnòzz, ‘n müsciaschìn
bràmes e betarchìa (nella stamberga c’è un bel mognante coi baffi, un
gattino ladruncolo e diavoletto).
Con pochi abiti indosso, più che altro ridotti a brandelli, comparvero altri
Bràgiola. Sbocconcellavano golosamente grosse fette di “matüsa”, una sorta
di pizza del posto. Pelosissime e scimmiesche, le femmine, con tutta l’aria
di premurose massaie, stesero lenzuolini e pannolini ad asciugare al sole.
Ai rami più alti dei castagni, quei bianchi quadratini di stoffa sembravano
tante preghiere tibetane.
Con un fare d’importanza prese allora la parola il vecchio satiro dei
Bràgiola:
- Ricordati, caro il nostro De’Quadrio, che i popoli che tu chiami
“selvaggi” non credono nelle dittature delle maggioranze, poiché sotto le
parvenze della democrazia, sono le peggiori. Noi, invece, andiamo dov’è
anelito di giustizia e libertà. Torniamo oggi dal Chapas, alleati degli
indios messicani. Ma anni addietro abbiamo inviato un commandos in Bolivia
agli ordini del Che. Siamo amici personali del Dalai Lama e giochiamo a
tressette con gli spiriti del Taniantaweng Shan.-
Ciò detto, riprese il suo canto nella lingua segreta dei magnani. La natura
tutt’intorno s’inchinava con riverenza a quel bardo silvano. Ombre e sospiri
di sole giocavano a gibigianna, s’udiva il gorgoglio del torrente, fremevano
le foglie del faggio, s’incupivano quelle del castagno. Tutti i Bràgiola
irruppero in un coro alpino, ammagliati dal loro capobanda. Gluglunava la
linfa sotto le ruvide cortecce, pulsava felice il cuore delle selve.
L’intera Cavargna inneggiava ambrosianamente al suo Dio Selvaggio.
Apoteosi
In quel suo sogno oltre il tempo, Italo, alzò gli occhi al cielo che
principiava ad imbrunire. Verso la Garzirola, una scia di luce risplendeva
per tutta la montagna. Come in una visione dantesca, miriadi d’ombre diafane
incedevano luminose, un ramoscello d’ulivo nella mano.
Una lenta processione d’anime, che camminavano come sollevate, eteree, ma
tanto vicine da poterle quasi sentire. Nella loro beatitudine, avvolti dal
buio e dal freddo pungente, i nostri defunti più cari salivano dai villaggi
della valle verso il tempio.
Lontano, un concerto intimo ma spirituale di cento fisarmoniche sembrava
accompagnarli. In quell’ascesa solenne, i poveri morti si sarebbero
incontrati sul colle per una sagra ultraterrena. Con i contrabbandieri
ancora con le bricolle, v’erano garibaldini periti da quelle parti per la
liberazione d’Italia, partigiani, l’intero equipaggio d’un velivolo tedesco
precipitato nel corso della Seconda Guerra Mondiale, profughi, fuggitivi.
San Lucio, la formaggia sottobraccio, li avrebbe accolti tutti sul grande
prato. Dall’alto della chiesetta, ultima sua dimora terrena, li avrebbe
spronati ad un’altra ascensione, quella che li avrebbe portati ai Pascoli
del Cielo.
Dall’altro versante della montagna, un’altra processione saliva a quel
tempio di fratellanza: ancora col “balüsción”, il mitico fagotto, vi si
contavano emigranti, manovali dalle mani indurite dal cemento, muratori e
casari, vecchi maestri di scuola, qualche pittore della montagna, qualche
rupestre poeta. L’intera giogaia risplendeva della beatitudine dei semplici.
Nell’attesa della Vita Eterna, le donne, fedeli compagne dei magnani e di
tutti i poveri diavoli, intonavano canti di giubilo. Poi, beate fra beati,
aprivano le danze. In un primo momento, gli uomini, con gesti di diniego
parevano rifiutare, ma ci voleva poco per spingerli al ballo. Una festa,
d’altronde, tutta angelica, senza vino né cattive intenzioni.
Tuttavia, le antiche divinità pagane offrivano ambrosia a volontà. Ad amor
del vero, il celtico Lug avrebbe desiderato portare della birra, ma l’ordine
del Cielo era imperativo: niente bevande fermentate! Bacco doveva invece
accontentarsi di puro succo d’uva, senza additivi. Giove Pluvio si trovava
nell’obbligo di far ballare unicamente Giunone, la diletta consorte.
Quell’attaccabrighe di Marte era stato disarmato da due Cherubini, e la
presenza di Venere lo inteneriva.
Gran varietà di balli! Gighe, gagliarde, monfrine e charleston. Alla pavana,
sopraggiunsero san Carlo e suo cugino, il Cardinale Federigo Borromeo con un
seguito di “merendieri” a cavallo: distribuirono cestoni di pane celeste a
tutti, mentre per il formaggio ci pensavano i devoti di san Lucio, patrono,
come si sa, dei “formagiatt” e delle “fromageries” di tutto il mondo.
Le messe in espiazione dei peccati commessi si susseguivano a funzioni
liturgiche di purificazione, le preghiere dei vivi mandavano in giubilo i
morti; l’affettuoso ricordo di chi non era ancora trapassato, ricambiava
l’umanità sul fronte della vita di un’incommensurabile eredità d’affetti.
La sagra si concluse con le prime luci dell’alba. Gli Arcangeli Gabriele e
Michele riportarono Italo nel suo letto, che si svegliò con una gran fame.
Il magnanino scodellò sulla tavola una polenta fumante e dorata. Giüdita vi
aggiunse una brocca di latte appena munto. A colazione ultimata, l’ospite
uscì per la solita boccata d’aria fresca: gettando un ultimo sguardo alla
Garzirola, gli sembrò che oltre la montagna, forse dietro l’ammasso cremoso
delle nuvole, il candido barbone, il Padreterno in persona gli sorridesse,
beninteso con tutto l’infinito Amore d’un vecchio magnano giramondo.
Non è raro, ad una cert’ora del tramonto, lasciarsi incantare dalle
sfumature rosate che ammantano la Garzirola. Come un canto sacro della
Georgia o una nenia balcanica rievocante l’impossibile sogno d’Orfeo, il
rosa evanescente dell’incarnato sfiora l’ambra degli avvallamenti, si
confonde al rosastro dei pascoli alti, l’arancio si sposa al magenta.
La montagna allora ci ammaglia e, in un abbraccio celeste, ci incanta.
Sgorgano i misteri dall’immaginifico mondo dell’infanzia e ripercorrono
balzelloni i crinali come gl’irrequieti folletti d’un’oscura veglia.
Non s’imbriglia ancora la fantasia al basso e cespuglioso “legn da cróos”,
il verde ontano, l’ispida “drosa”dei dirupi.
Fino a che il sonno li sorprenda e li colga, scorrazzano i monelli delle
“brughe”, gli sbrindellati “pataia”dei frastaglioni. Fino a che Morfeo
accarezzerà loro le palpebre con una fumosa ninnananna di neve, sopravviverà
l’illusione come sospesa alle argentee fronde della magìa.
L’intelligenza del cuore, in quei preziosi momenti d’eternità, leverà al Dio
delle montagne un pensiero di gratitudine, l’insubrica preghiera che dagli
abissi delle magnanesche progenie, tale un’urlata invocazione camuna,
s’eleva al grande Calderaio dell’Universo. |
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