Poetica
 

Nella pagina relativa alle Audioconferenze troverete altre poesie in formato RealAudio, recitate direttamente dagli autori e che potrete ascoltare e scaricare se vi piacciono.

La poetica della vita spinge all'espansione, alla crescita, al conoscere ed anche al far conoscere; per questo diamo spazio ad esperienze che ci hanno arricchito nella conoscenza, nello spirito, nel senso dei valori che ci spingono a "stare insieme" anche per leggere un "Omaggio a G. Abram" .

"Il binario" Poesia di Romeo Lucioni

"Un amore piccolo piccolo" Racconto di Ida Basso

"Quel tremore" Racconto di Ida Basso

"EDIPO e il suo complesso" Racconto di Ida Basso

"Lo sguardo" Racconto di Ida Basso

ROMEO LUCIONI è nato a Tradate, Varese, il 9-2-1937 e vive a Tradate, via Volta 5.

Ha conseguito la laurea in medicina e la specialità in psichiatria presso l' Università degli Studi di Milano e ha lavorato nell' Istituto di Psichiatria della stessa, come Assistente Incaricato per poi passare alla Guardia Psichiatrica II del Policlinico di Milano.

Nel 1968 si è trasferito, per motivi familiari, a Buenos Aires (Argentina) dove ha completato la sua formazione professionale, dedicandosi anche all'attività editoriale e pubblicando i primi suoi libri tra cui uno di poesia, "Horas de viento", per il quale è entrato come membro ordinario alla S.A.D.E. - Sociedad Argentina de Escritores.

Nel 1990 è tornato definitivamente in Italia dove lavora come psichiatra e si dedica, sin dal 1994, alla pubblicazione di tre riviste a carattere scientifico:
Qualità Culturale, Anziani Cultura e Colombo News

Il 9 novembre 1997 nella VII Edizione del Premio Nazionale di Poesia "Città di San Pietro a Maida" ha ottenuto:

  • Primo Premio - Sezione Silloge - con l'opera dal titolo: "Schegge d'amore".
  • Terzo Premio - Sezione Poesia Inedita - con l'opera dal titolo: "Il binario".

 

IDA TARANTOLA IN BASSO è nata a Masserano, Biella, il 22-4-1946 e vive ad Appiano Gentile, Como, via Salvo D'Acquisto 15.

Madre di tre figli, Michela, Filippo e Stefano, ha svolto la sua attività di insegnante presso le Scuole Elementari di Appiano Gentile.

Il 9 novembre 1997 nella VII Edizione del Premio Nazionale di Poesia "Città di San Pietro a Maida" ha ottenuto:

- Quinto Premio - sezione racconto - con l'opera dal titolo: "Un amore piccolo piccolo".

 

    UN AMORE PICCOLO PICCOLO

    Ida Basso

La vidi avvicinarsi, da lontano, nel suo cappotto scuro, lungo, che le copriva, un bel po' sotto il ginocchio, quelle gambe che mi ricordavo snelle, eleganti. Subito mi tornò alla mente il suo sguardo racchiuso nel viso dolce, sopra quella bocca tanto tenera nei suoi sorrisi sinceri, buoni, amici.

Lo sguardo di Maria Rosa è sempre stato come una luce, come un raggio di tenerezza che ti trapassa il cuore.

I suoi capelli, un tempo quasi biondi, ora erano un po' grigi, più spenti; nell'insieme, però, era sempre lei: distinta, di movenze sinuose, attraente.

Camminava portando una borsa della spesa che solo accentuava la cadenza dei passi, artificialmente, sul lato destro; si fermò accanto ad una macchina parcheggiata lungo il bordo della strada. La chiamai......

Non mi riconobbe subito; io ero avvolto nel mio impermeabile chiaro, lungo, chiuso completamente sul davanti per il vento freddo che scendeva dalle montagne vicine, coperte da poco da una spolverata di neve.

I nostri sguardi s'incontrarono: i miei occhi, da come lei mi guardava, dovevano dire qualcosa di più della sorpresa, ma la sua bocca, in un istante, riuscì ad esprimere tanti sentimenti, tenuti nel cuore per molti anni.

Ricordai che quando l'avevo salutata l'ultima volta - erano passati ormai più di venti anni - mi ero reso conto che Maria Rosa è una di quelle persone che non puoi dimenticare mai, perché ti lasciano una sensazione che ti attraversa tutto il corpo, un senso di nostalgia, di rammarico, di speranza, di piacere, di sogno: un cocktail di sentimenti che, ogni volta che ripensi a lei, scopri qualcosa di nuovo.

All'Ospedale tutti noi eravamo innamorati, chi più, chi meno; lei sapeva destreggiarsi tra tutte le nostre dimostrazioni di affetto accogliendo o rifiutando le galanterie, sempre con quel suo sorriso enigmatico o solamente sornione.

Non sapevo molto di lei, ma quel giorno che, inaspettatamente, l'avevo tenuta tra le braccia, in un semplice essere vicini, mi aveva dato l'impressione di una donna stupenda: le gambe sulle mie gambe. I seni rigogliosi, le braccia tenere e fugaci, le labbra teneramente dolci e sottili.

Ma, mio malgrado, non poteva esserci altro che questo, forse perché sentiva che il poderoso richiamo che si sprigionava attorno a lei era superficiale, non impegnato, avulso da qualsiasi storia. Eravamo molto amici; in quegli anni, lavorando nello stesso ospedale, lei come tecnica, io come giovane medico che non trovava giustificazioni o slanci o piacere per continuare una carriera che risultava sterile, buia, senza allegria.

Ci raccontavamo molte cose, commentavamo ciò che ci stava accadendo e sentivo che, mai, avrei potuto trovare in un'altra persona tanta bontà, gentilezza, tenerezza.

Poi, un giorno, come un fulmine a ciel sereno, ci aveva annunciato che si sposava e ci aveva presentato il suo futuro marito che, tutti noi colleghi, avevamo giudicato "la peggiore scelta che avrebbe potuto fare" forse feriti nel nostro orgoglio maschilista.

D'altronde, nessuno di noi aveva voluto o saputo incominciare con lei una storia seria: vedendola così giovane ed inesperta la giudicavamo più un trastullo che una vera e propria promessa di impegno.

Maria Rosa se n'era andata così, quasi in silenzio, lasciando un gran vuoto in quelle mattine che seguirono, in quei mezzodì non più rallegrati dalla sua presenza, da suo sorriso, dal mio grande desiderio di starle vicino.

Poi, anch'io me ne ero andato ed avevo continuato a riempire di appunti, di frasi, di sospiri e di un ricordo sempre vivido, sempre caldo e tenero, le pagine di qualche racconto, i sospiri che nascevano da una nostalgia un po' arrabbiata, piena di rimproveri e di rifiuto per sentirsi dimenticati. Così Maria Rosa era entrata nel mito, nel mio mondo personale, segreto, esorcizzante, voluttuoso, insicuro, indeciso, dissacrante............

In quel mattino freddo, dopo molti anni, il personaggio più importante di questa storia, nascosta e vergine, era lì davanti a me con il suo lungo cappotto scuro; lo sguardo un tempo tanto tenero, dolce, carezzevole, velato ora di tristezza, di rimprovero forse, mi spinse a voler scoprirne il segreto, per capire qualcosa di quel passato che già era storia e si incamminava verso il tramonto del ricordo.

Emozionati, ci sedemmo una di fronte all'altro, con lunghe pause di silenzio e scoppi incontrollabili di parole e parole, ansiosi, un po' tristi, mente io cercavo di scoprire nel profondo dei suoi occhi grigi il tepore di una carezza che non ci eravamo dati o che ci era sfuggita.

Giunse Alberto, il collega che ce l'aveva rubata come un bel fiore strappato dal suo giardino, inaspettatamente: il ladro goffo che si era portato via la gemma più preziosa della quale, forse, non riusciva e non sarebbe mai riuscito a capirne sino in fondo il valore.

Cominciò a raccontare la "loro" storia e, ad ogni parola sentivo come un sospiro sciogliersi in me e un punto di gloria, tenera, sorniona, buona che raccoglieva lui, che vedevo uguale a quando l'avevo conosciuto. Un po' più grassoccio sotto il mento, nella vita, ma, nel complesso, con le sue parole di uomo che vuole essere schietto, con quel suo abbraccio affettuoso che ti lascia con il dubbio se sarà proprio sincero.

Durante il suo racconto di una vita normale in un paese di provincia, immaginai lo scorrere degli anni in modo tranquillo, senza sussulti, immersi in quel tepore che solo un "amore piccolo piccolo" può dare, come le parole della canzone dei nostri tempi "........ amami poco ma sempre!".

Sentii una tenerezza infinita attanagliarmi il cuore, mentre ero insieme agli occhi dolci di sempre, alle lunghe gambe flessuose ed eleganti, alla Maria Rosa dei nostri sogni giovanili, un ricordo prezioso della nostra, della mia memoria travagliata dai "grandi amori", dalle "grandi conquiste", dai grandi inutili pensieri che si frantumano e dissolvono in una piccola nube grigia.

Nella sua casa, con suo marito, alzai un calice di vino e brindai a Maria Rosa per dirle grazie di essere sempre stata il più rosa di tutti i sogni perduti.

Mi chiedo cosa faccia qui, aspettando di cominciare questa nuova terapia che mi hanno raccomandato perché "... fa proprio bene!"; ne ho fatte tante ... ormai nulla mi è sconosciuto: musicoterapia, laborterapia, psicomotricità, arteterapia, eccetera, eccetera.

Tante cose per cercare di mitigare questo tremore che ormai da cinque anni mi disturba e non mi lascia vivere; non perché sia poi tanto penoso, ma per la sua invadenza, per il suo occupare i pensieri, tanto da limitare ... la vita!

È cominciato subdolamente, poco a poco, come un leggero formicolio che diventava piccole scosse involontarie. La sua trasformazione in malattia è stata progressiva, ma inesorabile e così mi sono trovata a dover fare conto con un tremore che sorge ogni qual volta voglio prendere qualcosa, lo chiamano "volontario" e sembra quasi una presa in giro perché io, in realtà, lo odio!

Nella disgrazia c'è anche una fortuna perché mi ha colpito quasi solamente la mano destra, ma ugualmente nessuno può immaginare quanto sia penoso questo disturbo "tremolante"! È costante o quasi, ma si accentua quando devo vestirmi, per esempio, prendere il caffè, cucinare, salutare, cucire e, in questo modo, mi fa sentire inutile e disabile perché si esaspera proprio quando avrei bisogno che non ci fosse.

Le sue scosse sono piuttosto lente, a volte dico "dolce", ma che fastidio !!! questo "piccolo tremore" è come se scavasse nella mente, come se prendesse i pensieri e li scuotesse tutti.

Da tempo ormai mi scopro a pensare a cosa farei senza di lui, ad analizzare piccoli disturbi alla gamba, al piede, all'altro braccio e mi chiedo se saranno i primi segni della diffusione della malattia; il mio corpo è in sua balia!

Vado regolarmente ai controlli medici e la specialista, con molta dolcezza, mi rassicura, ma dandomi una quantità impressionante di pastiglie, mi fa capire che ... non lo perderò più il mio tremore, è una malattia neurodegenerativa cronica. Mi sento un po' sciocca, ma non mi perdo nessuna riunione scientifica che organizzano in città e ascolto, ormai anche con poca attenzione, capendo poco, ma io vorrei solo sentire che hanno scoperto il toccasana, che hanno trovato il siero miracolosa per far sparire queste scosse che ormai mi condizionano.

Ho lasciato ormai ogni impegno mondano, anche se non ho mai fatto una gran vita brillante, poiché mio marito aveva un carattere come il mio, chiuso, riservato e schivo

Il tremore è cominciato prima della sua morte che giunse improvvisa, decisamente insospettata e lui mi prendeva un po' in giro per la mia goffaggine, ma so che soffriva, che non voleva vedermi così, anche se non me lo ha mai detto: era di poche parole !

A volte vorrei andare a teatro, al cinema o al ristorante; mi chiedo con chi e poi provo un poco di vergogna che gli altri mi vedano e possano scoprire questo difetto, la mia "menomazione", il mio handicap.

A dire il vero, da un po' di tempo, mi trovo spesso, per gli impegni terapeutici che occupano la settimana, con i miei "compagni" , persone che come me, tremano o sono rigidi o sono scossi da movimenti inopportuni, grossolani, involontari, ma ... micidiali!

Mi sento accompagnata e sono occasioni per scambiare quattro chiacchiere, anche se il tema è per lo più centrato sulla "malattia", sui momenti "in" e quelli "off", sulle pillole o su questa o quella esperienza più o meno interessante.

Proprio per questo mi trovo qui, aspetto per iniziare una seduta di una ennesima "terapia", ma dovrebbe farmi sentire meglio ... curarmi !!

C'è una musica dolce, che invade tutti gli spazi dell'anima e mi trasporta, romantica, serena, tranquilla. Mi sembra di sognare un po', ma da quanto tempo ho ormai smesso di sognare !!!

Casa e lavoro, lavoro e casa, poi questa "benedizione" che mi ha portato al pensionamento ed anche alla noia. Prima parlavo con le colleghe del supermercato dove ero commessa e mi piaceva soffermarmi ad ascoltare, io sono sempre stata di poche parole! Quante storie! Quanti amori e avventure e aneddoti e pettegolezzi!

A volte, mi scoprivo a sorridere pensando a questo o a quel tradimento e, forse, mi piaceva pensare un po' perversamente che ero io "l'eroina" di quelle storie -vere??- che, ce lo chiedevamo spesso, erano forse il frutto di fantasie o "figlie" del grigiore di una vita da operaie !!

Questa musica, che chiamano "new age", mi fa sentire diversa, stuzzica le mie corde romantiche più profonde e mi accoglie quando entro in un ambiente ampio, una palestra dalla quale se ne vanno, apparentemente contenti, altri pazienti che sono "Alzheimer", accompagnati dai "caregivers". Questi sono parenti o amici o conoscenti o volontari che, con quel nome, mi sembrano un po' marziani e tali devono essere per sopportare la "miseria" di quella malattia così distruttiva, così perversa !

Arrivano i miei "compagni", ci salutiamo, quasi di sfuggita, firmiamo -che pena !- il registro della giornata con i nostri sgorbi tremolanti e ci riuniamo in circolo, al centro del salone, al suono di un notturno che mollemente accompagna le parole di benvenuto, accoglienti e stimolanti, piene di speranza e di futuro, del "direttore" che è un medico specialista.

Ci muoviamo dolcemente, prima in un senso, poi nell'altro, al ritmo della musica, seguendo un filo di vaghi pensieri o lo sguardo lontano di qualche compagno. Poi ci fermiamo e, quasi fosse un rituale di una setta, diciamo il nostro nome, uno dopo l'altro.

"Elisabetta ! Io sono Elisabetta !!", le mie parole risultano forti sopra le note romantiche della musica che ci accompagna e sento il mio nome vibrare nell'aria, quasi come una liberazione, come una presenza di me che mi fa sentire importante, di valore, d'essere amata !

Anche gli altri nomi risuonano, ma il mio lo sento ripetersi in una atmosfera sognante e scopro che mai l'ho sentito tanto forte, importante, bello, che mi rappresenta e che ... amo ! Mi sento trasportare e la mano del direttore del corso che mi accompagna e mi guida, la sento forte, osata, avvincente, serenamente possessiva. Mi muovo, ma mi sento leggere e scopro che le nostre mani strette non tremano più ... che la mia mano destra tranquillamente stringe ed è stretta senza nessuna scossa estranea, spuria, invasiva.

Ora ci muoviamo tutti da soli, isolati, ci scambiamo cuscini soffici "... come se fossero le cose più belle che possediamo, i tesori più ricchi che teniamo nascosti, nel nostro cuore, tra i nostri pensieri !! e ci guardiamo negli occhi.

Non ho mai guardato negli occhi nessun estraneo ed è bello, anche se un po' sconvolgente, vedere gli sguardi, osservare ed essere osservati, scoprire ... "che cosa ha dentro quell'altro o quell'altra che vuole comunicare". Io non so cosa trasmetto, ma i miei occhi velati da una lacrima non devono sorprendere solamente me, perché tutti mi sorridono ed anche lui, il direttore, del quale accetto le due mani che mi fanno girare, accovacciare, risorgere, sollevare al cielo. La musica é un valzer che seguo con trasporto, con ansia, con gioia, con i piedi che sento muoversi vorticosamente ... mentre percepisco la mia mano, nella sua, che non tremula più !!

Non lo sento un miracolo, l'aver perso il mio "fastidioso compagno", ma qualcosa di naturale in questa atmosfera festosa, affettuosa, dolcemente cullata dalle note, dalle carezze immaginarie che sorgono in ogni momento, che accompagnano ogni sguardo che si fissa nelle mie pupille sbarrate.

Chiudo gli occhi e sento, sdraiata su un materassino, le dita di una giovane terapista che mi accarezzano le tempie, il viso, le labbra, le palpebre, i capelli. Distesa, tranquilla, senza tremare, vedendo anche gli altri compagni distesi al lato, che non tremano e non si scuotono più, sento che mi sto immergendo in un mondo insperato, mai conosciuto, aperto agli altri, aperto alla vita e all'amore, agli sguardi, alle tenerezze.

È già trascorsa l'ora di terapia, la mia ora nella quale ho perduto il tremore, anche solo per uno spazio di tempo limitato, per colpa delle endorfine, mi hanno detto, ma nella quale ho scoperto che vale la pena, che la vita è piena di sorprese, che va vissuta, per intero, senza paure, senza angosce, senza timori che altro non sono che i miei tremori, che i nostri tremori che non ci lasciano vivere, per vergogna, per dubbi, per piccolezze paralizzanti.

È finita la seduta e ci prepariamo ad andarcene, ma qualcosa è cambiato e ci abbracciamo tutti noi "compagni", come non l'abbiamo mai fatto prima, con un sospiro, mentre ritorno a guardare negli occhi lui e la mia mano che ci ha uniti, che mi ha fatto scrivere sui bordi del cuore ... ti vedrò la prossima settimana!

Il personaggio di questo racconto è, simbolicamente, chiamato Edipo perché la sua "storia mitica" ne giustifica il nome.

Edipo ha trent'anni e la sua vita è stata condizionata da venti anni di angosce, terrori e crisi di panico; i problemi, iniziati intorno ai dieci anni, si sono accentuati durante il servizio di leva , svolto nel settentrione d'Italia.

La famiglia è campana e risiede ad una cinquantina di chilometri da Napoli, in un paesino di poche migliaia di abitanti, abbarbicato sulle pendici di quelle colline famose per i continui pericoli di smottamento.

Edipo ha due fratelli e una sorella, tutti maggiori di lui e trascorre una fanciullezza serena, circondato da amici e compagni di scuola, tra i quali non é mai emerso, dato che la voglia di studiare era proprio poca.

Intorno ai nove-dieci anni arrivano "... le paure" ad avvelenare la sua vita spensierata. Il piccolo Edipo, verso sera, dopo le abituali scorribande tra i campi (i genitori sono contadini), é preso da un senso angoscioso di paura, ingiustificata, incontenibile, particolarmente fastidiosa per tutti: in questo modo "tragico" si trasforma in centro dell'attenzione!

Diviene una prassi, una vera abitudine, che il figlio minore s'intrufoli, prima o poi durante la notte, nel "lettone", tra i genitori che, sempre accoglienti, lo ricevono e lo "sopportano".

Il padre, dopo i primi mesi di questa "abitudine", comincia a lagnarsi palesemente, a reclamare il diritto al suo "posto", ma non si trova una soluzione e con la comprensione e la più totale accettazione della mamma, il posto centrale nel lettone, sino ai suoi quattordici anni, rimane sempre di Edipo. Anche durante il giorno spesso sopravvengono le crisi di panico che riesce a controllare con rapide corse verso le braccia della mamma o anche solo gridando il suo "amato nome".

Il genitore non sopporta la situazione e brontola continuamente con la moglie che "... coccola troppo quel moccioso!".

Il nostro giovane protagonista stenta a terminare gli studi, poi lavora come apprendista idraulico presso un amico del padre; non scompaiono le crisi di angoscia, ma la compagnia degli amici l'aiutano a superare le difficoltà ed i sensi di inadeguatezza.

Questo periodo adolescenziale è particolarmente significativo per la vita di Edipo: la madre comincia a bere (sempre e solo vino), quasi quotidianamente è ubriaca: è il crollo del suo punto di riferimento.

Le reazioni della famiglia sono "pesantissime": il padre urla e accusa la moglie di essere la vergogna della famiglia; il piccolo Edipo si sente tradito, accusa la madre "... di non avere rispetto per le fatiche del padre" e spesso arriva anche a "picchiarla".

Dopo tante scenate, tante botte, tanti tradimenti, finalmente la madre smette di bere, ma purtroppo qualcosa si è rotto nell'equilibrio familiare e, soprattutto, nel precario equilibrio psichico del nostro giovane eroe. Le crisi di angoscia si ripresentano e si susseguono; viene iniziata una terapia, in parte farmacologica ed in parte psicologica di sostegno, senza molti miglioramenti, anche se il giovane sembra un poco più tranquillo sotto il controllo dei suoi ormai insostituibili farmaci.

A turbare questa vita psicologicamente precaria arriva ... la chiamata alle armi. Questa esperienza si rivela un grosso supplizio per crisi di angoscia che Edipo cerca di nascondere e che, comunque, non giustificano un congedo anticipato. Durante l'anno di ferma, il nostro giovane allaccia relazioni sentimentali che non lasciano in lui nessuna traccia, tanto che, il giorno in cui se ne torna a casa, non si preoccupa neppure di andare a salutare l'ultima "ragazza" di turno; si sente sempre più svuotato e in balia delle paure.

Terminato finalmente il servizio di leva, Edipo torna nel napoletano, nella "sua terra", in famiglia, ma, non trovando lavoro, ha il coraggio di riprendere la via del nord e si stabilisce in un paesino della Lombardia ospite della sorella.

L'inserimento è duro, ma trova subito lavoro e ben presto va a vivere solo; si "innamora" di una ragazza del luogo con la quale inizia una convivenza. Le crisi di panico continuano ed il giovane lascia lavoro e amore e se ne torna al Sud.

Nel suo Paese gli sembra di tornare a vivere, conosce una ragazza appena uscita da un'amara "storia" con un tossicodipendente; si sposano e tornano al Nord dove il datore di lavoro gli perdona la "scappatella" e lo riassume a svolgere il suo lavoro di operaio idraulico, mentre la moglie lavora in casa come cottimista.

Ci sarebbero tutti gli presupposti per vivere finalmente tranquilli ... invece, sembra una maledizione, ricompaiono le crisi di angoscia. Edipo non sopporta altri farmaci se non quelli prescritti del suo primo neurologo, ma inizia una terapia di tipo psicodinamico, con sedute di psicodramma nelle quali partecipa anche la moglie.

Il lavoro psicoterapeutico è lungo, tortuoso, difficile; il paziente cerca costantemente un rapporto di dipendenza, di comprensione, di "coccolamento"; riemergono i bisogni di un "seno buono", ma anche terribili paure di castrazione, di dover affrontare un fantasma di padre poderoso e "violatorio". Durante le sedute di psicodramma con la moglie, il terapeuta è vissuto come pericoloso, perché può "... portarsi via mia moglie" !!!

Finalmente emergono le ansie di castrazione vissute durante la leva: i generali erano le figure con le quali il giovane non poteva raffrontarsi, che odiava, ma che gli incutevano terrore per possibili ritorsioni.

Si evidenziano sentimenti di vendetta ed una oscura voglia di annichilamento come salvaguardia di un Sé confuso, incapace di scegliere, di amare, di andare oltre i suoi bisogni infantili, incontenibili, di possedere qualche oggetto mitizzato.

La figura dell'emigrante che non trova una sua dimensione nell'insensibile ed emotivamente freddo nord sembra dare un significato alla psicopatologia che si accompagna ad un senso di "rinascita" quando gli sposi vanno momentaneamente al Paese, felici di tornare a respirare "... quell'aria natale", di ritrovare una dimensione "naturale", familiare, di grande accettazione ed amore.

Ma Edipo neppure qui perde le esperienze intime angosciose ed il ritorno al Nord significa riprendere il lavoro e la terapia che volge al suo fine con la spiegazione di questo famoso "complesso di Edipo" nel quale si evidenziano le espressioni psicoanalitiche più classiche.

Nel primo atto si sviluppa l'amore per la madre, coccolante e protettiva, con una strenua opposizione al padre che "brontola" per l'invasione del figlio nel letto e che lo divide dalla moglie.

Nel secondo atto la madre amata entra in crisi e viene ripudiata e sostituita nell'amore viscerale verso il padre che si è sempre sacrificato per la famiglia.

Il mito si compie nel terzo atto, nella fuga dell'eroe che non smette di cercare il proprio equilibrio e ricostruisce un "nido", con la madre-moglie che lo coccola, che lo accoglie, che accondiscende a tutti i suoi desideri infantili, che vive le proprie impotenze come riconoscimento del valore intrinseco del proprio figlio-marito.

Le ansie, le angosce, le paure non si placano sin quando, nel finale, nel chiudere il telone dello psicodramma, si compie il destino che è quello mitico di avere inteso il paradigmatico, trascendente ed eroico cammino del proprio inesorabile destino "sbattuto" tra le tempeste emotive ed affettive di Laio e di Giocasta.

Lo sguardo

Ida Basso

Un temporale improvviso scatena la violenza del cielo, mentre percorro un tratto della solita strada che si snoda, tortuosa, in mezzo a boschi verdeggianti, in una primavera avanzata.

Procedo guardinga, mentre la pioggia cade a rovesci e grossi chicchi di grandine picchiano sul vetro che sembra opaco. Fatico a vedere il percorso tra i "fantasmi" degli alberi, squassati dal vento, che mi mettono paura.

Improvvisamente una luce violenta, un lampo mi abbaglia e il tuono che segue mi stordisce, mi fa perdere il controllo di me e del volante: un urlo, un terribile schianto, poi più nulla, il buio assoluto, il silenzio.

È quasi un racconto che sento o vedo ripetersi, oppure immagino mentre riesco a capire, nel buio, la mia situazione: non riesco a decifrare, in un silenzo innaturale, se sia sveglia o se stia sognando. C'è un rumore metallico, sincronizzato, penetrante e mi sembra di fare uno sforzo enorme per aprire gli occhi, resto immersa nel mio buio profondo, immobile, con i muscoli che non rispondono alla volontà.

Cerco di percepire il mio corpo nella sua totalità o in parte; tento di muovere prima una mano, poi un piede, ma ho come la sensazione angosciante che non succeda nulla, che tutto resti immobile, che niente risponda ai miei sforzi, ai miei stimoli.

Valuto le mie condizioni e realizzo il sospetto di essere completamente paralizzata e, forse, cieca. Il terrore mi attanaglia la gola e diventa un vortice nel quale mi sento inesorabilmente cadere.

Sono terrorizzata: ciò che avevo sempre temuto in caso di incidente, è avvenuto realmente; penso a mio marito, ai miei figli; mi perseguita l'idea di sempre: "... mai vorrei risultare un peso per loro, per i miei cari; sarebbe meglio morire!".

Mi sembra di piangere, ma non so se ne sono ancora capace.

Colgo il rumore lontano di una porta che si chiude; il passo di alcune persone e una voce maschile che dice: "Siamo al decimo giorno .... Il quadro clinico si è stabilizzato". Poi, la "voce", con lo stesso tono professionale, ma forse più lontana o più sussurrata, prescrive una risonanza magnetica e le fa eco un timbro femminile, stridulo, direi, che chiede chiarimenti sulla terapia somministrata e su quella da seguire.

La pacatezza, la precisione e la serenità del medico ha il potere di tranquillizzarmi; desidero addormentarmi, ma non riesco.

Arrivano nuovi suoni, confusi all'inizio, ma poi più chiari da poter decifrare le voci dei miei figli, che mi parlano affettuosamente, che con carezze cercano di svegliarmi, di farmi tornare cosciente, accanto a loro. Vorrei tranquillizzarli, far loro capire che li sento, ma non so come fare ... mi sento imbalsamata!

C'è una musica che si diffonde nell'aria: riconosco le note di una canzone che ha accompagnato alcuni momenti felici e mi sforzo di non pensare alla situazione drammatica in cui mi trovo.

Trascorrono le ore di un nuovo giorno, sento le voci in corridoio, le continue istruzioni del medico e poi ... null'altro.

Mi risveglio e la musica è più nitida, le voci meno ovattate, mi sembra di sentire meglio il corpo anche se le gambe e le mani ancora non rispondono ai miei input. Sento la solita voce suadente che informa mio marito dell'esito favorevole delle analisi, della sua fiducia nella mia ripresa e della necessità di pazientare.

Arrivano i miei figli: riesco a distinguere le loro voci; vorrei gridare: "Ci sono! Vi sento! Vi voglio bene! ..."; ma mi è assolutamente negato.

Mi sento intontita, sono in uno stato di veglia, ma oggi percepisco un punto luminoso, lontano, piccolissimo, infinitesimale, .... ma c'è ...!

Mi dico: "Sforzati, concentrati, liberati da questo velo che ti impedisce di aprire gli occhi" ,ma è come se una forza sovrumana mi impedisse di farlo. Sono scoraggiata, piango, ma non mi arrendo ....

Odo il solito passo che ormai riconosco e la "sua" voce vellutata e suadente che insiste perché mi sforzi di aprire gli occhi, perché, mi dice, posso farlo.

Provo e riprovo finché intravedo prima chiari e scuri, poi una figura che si staglia innanzi a me; contemporaneamente sento la stessa voce che chiama i miei cari e comunica loro che sono uscita dal coma. Voci concitate, pianto, commozione: questa è la reazione di tutti.

Pensando alla rieducazione lunga e difficile, mi sento di nuovo attanagliata dall'angoscia; apro gli occhi e uno sguardo colmo di dolcezza mi colpisce e mi fa sobbalzare: riconosco i due occhi verdi come un lago di montagna che mi avevano tanto fatto sognare da ragazza!!!

Mi dico che è impossibile; Paolo era partito per gli Stati Uniti. Quando il nostro amore stava crescendo e maturando, gli studi di Medicina me lo avevano portato via!!!

Rivivo tutta la nostra storia, bella, pulita, piena di momenti teneri e dolci e forse provo un po' di rimpianto per non averlo saputo aspettare, non avendo creduto alla sua promessa di tornare per realizzare il nostro sogno di formare insieme una famiglia.

Sono completamente vuotata e frastornata: la testa mi scoppia, sento le lacrime che scendono, mi sembra di impazzire, ma .... muovo una mano!!!

Forse la paura di perdere Paolo un'altra volta mi ha sbloccata, ha permesso che la voglia di vivere avesse il sopravvento.

Durante la riabilitazione, penosa e snervante, sovente mi demoralizzo, ho bisogno di tutti e di tutto; mi chiedo con angoscia se mai potrò ritornare ad essere "quella di prima".

Sono sfiduciata: i miei figli e mio marito si sentono impotenti e non riescono a darmi gli stimoli per affrontare questo momento tanto difficile; molto realisticamente prendo coscienza che mi aspetta una vita da handicappata.

Paolo si prodiga molto, mi è vicino in modo insostituibile e prezioso, sa cogliere ogni mio stato d'animo: sento che è tornato a emergere quell'affetto grande e sincero che ci aveva uniti, un tempo, ma forse, istintivamente, per sempre.

Mi fa paura pensare che in noi sia rimasto qualcosa del nostro amore "magico" e mi scopro a sognare come sarebbe stata la vita insieme, condividendo la "quotidianità" fatta di gioie, di preoccupazioni e di ... tanta dolcezza!!

Da questi sogni comprendo che non voglio che il "mio primo amore" possa compatirmi, che mi stia vicino solo perché sente che ho bisogno di lui, voglio che l'amore che ci aveva uniti in gioventù si trasformi in una solida amicizia.

Avere la sua commiserazione sarebbe come giocare ad "armi dispari" con la mia sconfitta fisica e morale, ancora prima di iniziare la partita.

Desidero averlo vicino, rivivere il passato di ragazza spensierata, mentre ripenso alla vita felice con mio marito e proietto le aspettative nei miei figli, per ciascuno dei quali, in modo diverso, rivesto un "ruolo determinante".

In tutte queste persone "insieme", forse posso ritrovare la forza di ricominciare a lottare per essere me stessa.

Ma, improvvisamente ... mi sembra di percepire una vaga sensazione cutanea, come di carezza, che mi fa trattenere il respiro mentre, lentamente, apro gli occhi ... sorpresa !!! Davanti a me c'è mio marito con il vassoio del "caffe della domenica" che sempre mi è piaciuto assaporare senza fretta sul letto; poi, dietro, emergono, uno dopo l'altro, i miei ragazzi, con un'aria raggiante mentre intonano il mio "happy day"!

Mi sorprendo a sorridere, di un sorriso dolce e soddisfatto, che nessuno però può capire sino in fondo ... perché ... ormai siamo "tutti" riuniti !!!

 

Omaggio a

Giuseppe Abramini

Romeo Lucioni

Ho davanti a me una statuetta, opera di quel grande artista che si cela dietro la "sembianza" di G.ABRAM (sembianza espressione di un "grande uomo" che si cela in Giuseppe Abramini), ma forse dovrei dire che "ho tra le mani" quest'immagine di danzatrice che, girando, plasticamente si staglia occupando prepotentemente lo spazio, assumendo (cioè facendo propria) quella plasticità che è l'essenza d'ogni essere vivente o, meglio, pensante.

Seguendo le volute "impossibili" del bronzo, mi sovviene l'impressione vivace e decisa che trasmettono sia la forma, o dimensione somatica, che lo sguardo di questo artista che lascia, oltre che nella materia (preferibilmente il bronzo), anche nel nostro schema percettivo una "sensazione" indelebile. Sono proprio le sue parole, il suo linguaggio, il suo muoversi, il suo espressionistico "dibattere" sulla molteplicità dei sentimenti, delle credenze; sulla variabilità delle sensazioni e degli affetti; sull'impossibilità di concepire un pensiero se non come sintesi di contrari che emergono dall'osservazione di questa statuetta e dalla rievocazione mnestica di tante opere, piccole o grandi, ma tutte intensamente vitali, appena ammirate nell'esposizione ritualmente annuale, che ravviva le "molli" estati di Bormio.

Ricordo la plasticità e la "ritmicità" della "caduta" che frena l'impeto e l'incontenibile forza di quel cavallo lanciato nella più frenetica corsa; la dimensione, mitica nel suo divenire, di "Apollo e Dafne"; l'eleganza delle "bagnanti" che giocano con la palla; l'estasi del bambino che trattiene negli occhi, oltre che nello specchio, l'effigie della mamma che trasuda quel narcisistico senso del bello che accomuna tutte quelle opere che vorticosamente mi circondavano poco fa.

Rievocando tante sensazioni rincorse dalle parole-spiegazioni dell'artista, è come immaginarsi nel mondo della mente e capire "la verità" insieme con G. Abram.

Il suo nome evoca, emblematicamente, l'immagine mitica e metaforica del viaggio che è sempre una ricerca intima e profonda di quello che per la filosofia greca è stata l'estetica: bellezza, verità, giustizia e universalità.

Negli occhi dell'artista brilla costantemente quella che è ricerca o desiderio di scoprire tutto o di "trattenere tutto" in un'immagine come fosse un "Alef" (ricordo enigmatico di Borges) dal quale estrarre, come da una divina cornucopia, ogni espressione, ogni dimensione, ogni sfumatura della mente.

In Abram, nel movimento, nella molteplicità, nella plasticità c'è forse una ricerca onnipotente di scoprire ogni perché, insieme con ogni verità e questo avvicina le sue opere a quelle dei Grandi:

Rodin, prima di tutto, nella sua smaniosa ricerca della "totalità" del pensiero, della ricerca cosciente ed intelligente del significato dell'essere uomo;

Michelangelo, nella sua quasi certezza di avere raggiunto la capacità di rappresentare la complessità dell'espressione formale per cominciare, novello creatore, ad insufflare nella materia "lo spirito" ("... ed ora, parla!");

Antonio Pujia, combattuto nella molteplicità dei sentimenti e nella conflittualità dell'anima;

Henry Moore, "immenso" nella sua ricerca dello spazio vitale e plastico d'ogni immagine emblematica.

In G. Abram si respira però qualcosa che è nostro, direi quasi popolare, che racchiude in se la sensazione di una onnipotenza istintiva, quel senso di se che permea la struttura di un Io integrato che ci permette di navigare fra la complessità e la casualità che dominano l'esistenza dell'uomo moderno e la sua quotidianità. Forse è proprio nell'immagine grafica di Paolo e Francesca, insieme alla veemenza dei cavalli lanciati in una frenetica corsa o in un rampante scagliarsi contro il cielo che si configura meglio quello spirito d'istintività, di primordialità e, così, di verità che scopriamo nell'osservare, una dopo l'altra, ossessivamente, facendole ruotare tra le mani queste opere che sono ormai diventate, in noi, figurazioni mitiche scoperte, un po' per caso, nell' atmosfera di una Bormio, tiepidamente accoccolata tra montagne tanto familiari da contenere parte della "nostra storia".

"Leggere" le opere di G. Abram è quasi una scoperta epistemologica della realtà, è tuffarsi nella gnosi e scoprire il senso profondo dell'eutonia, la verità della bioenergetica, la complessità della ricostruzione catartica di una seduta psicoanalitica, la dimensione improbabile del conoscere attraverso l'intelligente accostamento di simboli, la ricerca olistica della Biodanza, la profondità sacralizzata di una esoterica ricerca della verità, la struggente impressione di aver scoperto il senso della vita, dei miti, degli archetipi.

La ricerca emblematica che fa G. Abram dei misteri dell'uomo e della donna, il suo desiderio di accostarsi al "bello", l'inesorabile certezza di poter coagulare nelle sue opere la verità trasudano dalle sculture, ma ancor più dalle parole, dagli sguardi, dai gesti ampollosi di un artista che, nel suo valore, lascia una impronta indelebile nella memoria visiva e, soprattutto, nell'animo di chi l'ha ammirato ed "amato"

 

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